Era in fondo ad un cassetto, insieme ad alcuni documenti ormai scaduti. Ingiallita dal tempo quella foto mi ha catapultata indietro di alcuni decenni. Facendomi rivivere ricordi ed emozioni e provare tanta nostalgia per quel tempo che è stato e per le persone care vive solo in fondo al cuore.
Nell’immagine la mia famiglia, al centro lei, una suora di clausura. Con la sua storia, la sua vita che è stata (e continua ad essere) anche parte della mia.
Suor Dolores, al secolo Gesuina, sorella di mio nonno Federico e zia di mia madre, decide di entrare in convento molto giovane, 16 anni o giù di lì. Una vocazione a prova di bomba. Opta per l’ordine più duro, le Clarisse, nonostante le resistenze familiari, il monastero di Arezzo diventa la sua dimora definitiva. La sua nuova casa, la sua nuova famiglia, tutto il suo mondo era lì, tra quelle mura.
La conobbi nell’estate nel 1973. Ero in campeggio a Follonica (GR) e insieme a mio marito decidemmo di recarci ad Arezzo per conoscere questa zia, della cui esistenza sapevo solo grazie agli scambi epistolari. Il mio nome lo devo lei e alla devozione di mia madre per Santa Chiara.
Volevo farle conoscere la mia famiglia, mio marito e il piccolo Massimiliano che stava per compiere un anno. Non fu difficile trovare il monastero, gli aretini seppero darci le giuste indicazioni meglio di quanto faccia oggi il navigatore.
Bussammo e, fornite le generalità via citofono, fummo fatti entrare nella sala d’attesa. Il fresco ed il silenzio furono le prime sensazioni provate. Lo sguardo si posò poi su quelle sbarre di ferro che separavano le sorelle dal resto del mondo.
L’attesa durò poco. Arrivò una suora, era la zia, già avanti negli anni che avrebbe voluto abbracciarmi ma non poté farlo. Ci sfiorammo le mani, attraverso quelle grate. I suoi occhi si fecero lucidi per la gioia nel sentire che lei, monaca dall’età di 16 anni, era sempre presente nei pensieri dei familiari.
Dopo un po’ arrivarono, alla spicciolata, una decina di consorelle con sedia a seguito. Gli occhi tutti puntati su quel bambino che muoveva i primi passi e diceva, a modo suo, le prime parole. Un bambolotto da accarezzare, da annusare, da mangiare di baci.
Arrivò l’ora di cena. Un’esperienza indimenticabile. Dalla “ruota conventuale”, girevole, fece capolino tutto l’occorrente per apparecchiare la tavola. Con la seconda girata arrivò la cena al completo. Semplice, coi prodotti del loro orto, ma squisita. Trascorremmo la notte in convento, in una camera arredata in modo francescano, che sapeva di pulito. Il mondo era lontano. E distanti erano i problemi che lo affliggevano. Ma questi erano presenti nelle loro preghiere, fin dalle primissime ore della giornata. Una vita contemplativa la loro, e di preghiera.
Il mattino seguente, la colazione, ancora qualche chiacchiera e i saluti. Con la promessa che ci saremmo riviste.
Promessa mantenuta una decina di anni dopo.
L’occasione si presentò quando i miei genitori decisero di venire “in continente” per trascorrere un po’ di tempo qui ad Anzio dove vivo. La famiglia era cresciuta, ora i bambini erano due e noi adulti eravamo quattro. Ma l’ospitalità fu la stessa, anzi migliore della precedente.
Suor Dolores aveva raggiunto la veneranda età di 80 anni e la madre superiore fece uno strappo alla regola. Ci permise di “oltrepassare” le grate e di abbracciarci fisicamente. Ricordava ancora il sardo la zia e desiderava sentirlo parlare. Era avida di notizie, voleva sapere tutto dei parenti, chi era vivo e chi no, con chi si era sposato tizio e cosa facevano caio e sempronio. Una bambina curiosa e impaziente. Ma di una dolcezza e di una serenità che sprizzavano da ogni poro.
Oltrepassando quelle grate, il mondo, e non solo noi, era entrato per qualche ora in quel convento. La vita, i ricordi, le corse dei bambini, i racconti avevano preso il posto della contemplazione e del silenzio.
Conservo un ricordo piacevolissimo di quelle due visite.
Non riuscivo a capire, prima di allora, perché il mondo e la vita fossero al di là delle grate, fuori dal loro uscio.
Non era così. La vita di contemplazione non era fine a se stessa, era dedita alla sofferenza del mondo, alle discriminazioni, alla povertà e la vita quotidiana era scandita in parti uguali da “ora et labora”. Giardinaggio, cucito, rammendo, conserve di verdure e marmellate, biscotti, distillati di erbe e altro ancora erano in parte a disposizione loro, il resto, la gran parte, per la comunità. Per i tanti che ne avevano bisogno. Molte e diversificate erano le opere di carità svolte in silenzio.
Nelle loro giornate non c’era spazio per l’ozio e il dolce far niente.
Se n’è andata a 99 anni lasciando un gran vuoto in quel monastero del quale era la memoria storica e punto di riferimento. Oggi, nel ricordarla, l’ho sentita nuovamente accanto a me, come in quei giorni.
Chiara Farigu