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mercoledì 5 ottobre 2022

5 ottobre: giornata mondiale dell’insegnante. Ventiquattr’ore per riflettere ma soprattutto per fare

 Anche quest’anno Google  dedica il suo ‘doodle’ alla giornata mondiale degli insegnanti. Lo ‘scarabocchio’ con i diversi ‘attrezzi’ del mestiere: mappamondo, squadra, matita, microscopio, lavagna e l’immancabile libro, diretti armoniosamente dal Capitano per eccellenza: l’Insegnante.

Più che una dedica, un augurio. Dal momento che il tema per l’evento di quest’anno è la leadership degli insegnanti nella trasformazione dell’istruzione, trasformazione che inizia appunto attraverso la figura che tale ruolo rappresenta, ovvero il docente.

 Istituita nel 1994 dall’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di conoscenza e patrimonio culturale, la ricorrenza  vuole essere un invito alla riflessione sull’insegnamento, la professione più bella e nobile che ci sia.  Sulle sfide quotidiane e sulle difficoltà, le tante ancora che per diverse ragioni non si riescono o forse non si vogliono abbattere.

Soprattutto ora. Dopo la difficile e delicata ripartenza dopo oltre due anni di chiusura per pandemia da coronavirus. Mai come adesso c’è bisogno di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà che gli insegnanti di tutto il mondo hanno dovuto e dovranno affrontare ancora affinché la didattica sia garantita definitivamente  in presenza e non si torni allo spauracchio dell’insegnamento da remoto. Con tutti i pochi pro e tanti contro che abbiamo avuto modo di verificare.

Mai come adesso si avverte la necessità di ristabilire quell’alleanza tra scuola e famiglie. E tra scuola e istituzioni.

Troppo spesso gli insegnanti vengono lasciati soli, ingabbiati nelle strettoie burocratico/amministrative che rubano spazi e tempi alle discipline che sono chiamati a condividere coi loro studenti. In aule spesso fatiscenti e a rischio crolli, con carenza di attrezzature e materiali didattici. Con retribuzioni da terzo mondo e, in barba al futuro che rappresentano, obbligati a stare in cattedra oltre ogni limite.

I più vecchi d’Europa, quelli italiani. E i meno remunerati. Maglia nera da anni il nostro Paese, a ricordarcelo, qualora ce ne fosse bisogno, i diversi istituti di statistica nei loro report annuali.

Ma sempre prima la scuola, insieme alla sanità, nella hit per le sforbiciate previste dalle revisioni di spesa del bilancio pubblico. Scuola e investimenti. Un ossimoro da sempre. L’incubo di ogni governo. Che sempre promette ma quasi mai poi mantiene.

E se mantiene, mai nella giusta direzione. E necessità.

Basta vedere quanto è stato fatto, o meglio non fatto, in questi due anni di pandemia. Tanti, troppi i bla bla bla, pochissimi i fatti.  Anche il  nuovo anno scolastico è iniziato coi vecchi stramaledetti  problemi di sempre. Alla faccia delle roboanti dichiarazioni fatte dal ministro di turno.

Perché la scuola, e tanto meno il benessere degli insegnanti, non è mai la priorità. Se non a parole,  in campagna elettorale o nelle promesse dei governi quando si insediano. Ma puntualmente, il nulla di fatto.

Per poi scoprirne nuovamente il valore, l’essenza,  come è successo nel periodo dell’emergenza pandemica. Quando ad occuparsi di alunni e studenti sono state chiamate in causa le famiglie. E’ stato allora, dopo decenni di assoluta indifferenza che si è riscoperto il valore della scuola. Inteso come luogo di formazione e ancor più di socializzazione.

Punto di riferimento indispensabile per la società intera.

Sono stati due difficili, quelli appena trascorsi. Nei quali i docenti si sono dovuti inventare una nuova modalità di insegnamento servendosi della tecnologia per non lasciare indietro e abbandonati a se stessi alunni e studenti di ogni ordine e grado. Non dimentichiamo che per molti di loro, quando i bollettini medici contavano giornalmente migliaia di morti, l’unica voce amica arrivava da quello schermo.

Ma ora, fortunatamente, il peggio è passato e si guarda al presente. Con le tante, troppe difficoltà ancora in atto e da risolvere. Come garantire  agli studenti sin dal primo di giorno la presenza in cattedra degli insegnanti. E la messa in sicurezza degli edifici scolastici. Ma anche la valorizzazione della figura professionale dei docenti, intesa come rispetto per il ruolo rivestito che comincia sì da un giusto riconoscimento sociale che non può e non deve prescindere da un’adeguata retribuzione.

Valorizzare la leadership degli insegnanti è giustappunto il tema che Education International, Unesco, Organizzazione internazionale del lavoro e Unicef, sceglie per la ricorrenza 2022.

Un invito specifico ai governi  affinché si  investa nella professione dell’ insegnante, e si rispetti il ruolo che rappresenta, accordandogli la fiducia che merita.  Affiancandolo nell’ascolto e sostenendolo nelle difficoltà. Sgravandolo dalle inutili pastoie burocratiche che tolgono spazio e tempo alla didattica. Soprattutto oggi che l’istruzione è in continua evoluzione e costante trasformazione.  Avendo cura di  retribuirlo adeguatamente. Perché il riconoscimento sociale, nonché il rispetto, ricordiamolo sempre, non può non andare di pari passo con la giusta retribuzione.

Una giornata importante, dunque. Ventiquattro ore per riflettere. Ma soprattutto per fare.

Chiara Farigu

domenica 14 agosto 2022

Ponte Morandi. Genova non dimentica e chiede giustizia: 4 anni fa il crollo

 C’era una volta il ponte o viadotto Polcevera, meglio noto come ponte Morandi, dal nome dell’ingegnere che lo progettò. Per oltre 60 anni è stato il simbolo di Genova e nodo strategico per il collegamento fra il nord-Italia e il sud della Francia.

Quattro anni fa, esattamente il 14 agosto del 2018, alle ore 11, 36, come un fulmine a ciel sereno, il crollo di uno dei tre piloni che sostenevano il ponte trascinando con sé un tratto di strada lungo circa 200 metri.
Una tragedia immane: 43 le vittime. Una ferita profonda non solo per Genova ma per l’Italia tutta. Le immagini fecero il giro del mondo. Quel camion che si arrestò un secondo prima di precipitare nel vuoto divenne il simbolo della tragedia tra il prima e il dopo.
Sessanta anni di storia e di storie. Sessanta anni di viaggi di piacere e di lavoro. Sessanta anni di unione, di incontri di vita di milioni di italiani.
Poi il crollo, il dolore, la morte. E oltre 600 gli sfollati. 
La ricerca delle responsabilità, le accuse a chi doveva e non ha fatto i necessari controlli, gli scaricabarile come sempre avviene dinanzi alle tragedie. Le promesse della politica di ricostruire quanto e meglio di prima. Ma soprattutto la determinazione dei genovesi di voltare pagina e guardare al futuro.
Poi il nuovo progetto dell’archistar Renzo Piano e i fondi per la ricostruzione. E nello sfondo la magistratura per appurare responsabilità e responsabili.
Una lunga storia che ha fatto e farà parlare ancora molto a lungo.
Dopo meno di un anno la demolizione di quel che ne restava. In soli sei secondi l’implosione di sessanta anni di storia, ridotti a ventimila metri cubi di detriti. Centinaia i genovesi appostati fin dal mattino per dare l’ultimo addio a quel simbolo che da quel momento non c’era più.
Da adesso comincia il futuro, titolarono i giornali.
Futuro che arrivò quasi in tempi record: dopo due  anni di lavori no-stop, alla presenza di Sergio Mattarella e delle più alte cariche dello Stato, il 3 agosto del 2020  l’ inaugurazione del nuovo ponte, chiamato  ‘Genova San Giorgio’, che verrà aperto al traffico due giorno dopo, il 5 agosto.

Immagine tratta da ligurianotizie.it

Sono passati quattro lunghi anni da quella tragedia che, come è stato ampiamente appurato da verifiche successive, si sarebbe potuta e dovuta evitare. Quel ponte sarebbe ancora in piedi se chi di dovere avesse provveduto alla giusta manutenzione e al costante monitoraggio della tenuta di bretelle piloni e ciò che necessitava di cure e attenzioni. E  controlli periodici.

Troppi i se e troppe le domande ancora senza risposta in questa tragedia che chiede ed esige giustizia. Perché Genova non dimentica, non può e non vuole dimenticare, ha ribadito oggi il sindaco Bocci durante la cerimonia di commemorazione. Ma soprattutto pretende GIUSTIZIA.

Perché senza sarà la sfiducia farla da padrone.  E la quasi certezza che ancora una volta non si sia imparato nulla o quasi quando si antepone il profitto alla sicurezza.

Una ferita che non si può rimarginare, una sofferenza che non conosce oblio, una solidarietà che non viene meno. Una una tragedia che non deve ripetersi mai più. Un dramma per tutta la Repubblica’, è questo il messaggio di solidarietà del Capo dello Stato Mattarella  e del presidente Draghi, ai parenti delle vittime e alla città ligure, oggi stretti nel ricordo dell’immane tragedia ma fermamente determinati a cercare giustizia.

Affinché mai più si debba raccontare ‘c’era una volta’.

Chiara Farigu

*Immagine Liguria Today

sabato 13 agosto 2022

Piero Angela. Ciao Maestro, ci mancherai!

 Sapeva da tempo che era in procinto di intraprendere l’ultimo viaggio in quanto ‘anche la natura ha i suoi ritmi’, come scrive lui stesso nell’accomiatarsi dai telespettatori dopo ben 70 anni vissuti insieme. “Anni, sottolinea, per me molto stimolanti che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana. È stata un’avventura straordinaria, vissuta intensamente e resa possibile grazie alla collaborazione di un grande gruppo di autori, collaboratori, tecnici e scienziati. A mia volta, ho cercato di raccontare quello che ho imparato. Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese. Un grande abbraccio”.


A dare l’annuncio della sua morte è stato suo figlio Alberto con un semplice ‘buon viaggio papà’ sul suo profilo facebook.

Avrebbe compiuto 94 anni qualche giorno prima di natale Piero Angela ed era in piena attività nonostante fosse afflitto da tempo da una malattia, che ha cercato di domare sino all’ultimo.

‘Se sei curioso, creativo e ti interessi di diversi argomenti, allora stai bene. Funziono meglio adesso, rispetto a trenta anni fa’, rispondeva  a chi gli domanda come ci si sente dinanzi a un compleanno così importante come l’ultimo che si accingeva a festeggiare il 22 dicembre scorso.

Curiosità, creatività, conoscenza e interesse che ha sempre messo a disposizione dei giovani come  ‘Prepararsi al futuro’, programma andato in onda  su Rai 3 lo scorso febbraio.

Responsabilità preparazione e conoscenza sono stati sempre i pilastri del suo lavoro. Non si può essere approssimativi o superficiali quando si parla di scienza, ripeteva  Angela, invitando i giovani alla lettura e allo studio coi quali abbattere ignoranza e pregiudizi.

Su quale fosse il segreto della sua longevità fisica e mentale non aveva dubbi: buoni geni e tanti interessi. Il cervello è un serbatoio che più lo riempi, più il suo spazio aumenta, è fondamentale mantenerlo costantemente  attivo, così come avere degli hobby e non stancarsi di essere curiosi.

E lui che della curiosità ne ha fatto la ragione stessa della sua vita e della sua lunga e invidiabile carriera,  gli anni non li contava più. Li viveva con la leggerezza di sempre, sebbene non mancasse, come ha poi confermato nel suo ultimo saluto ai telespettatori, non solo qualche acciacco legato all’età ma anche un’importante patologia. ‘Penso a me stesso come a un giovanotto, almeno interiormente’, amava ripetere nelle sue interviste.

Nato a Torino nel 1928, Piero Angela è stato il più importante e noto divulgatore scientifico, ‘Quark, divenuta poi ‘Super Quark’ dura da oltre 40 anni). Ma è stato anche giornalista, conduttore televisivo e saggista. E’ stato il Maestro che ognuno di noi avrebbe voluto per la chiarezza, la competenza, la semplicità e l’amore per il suo lavoro. Ci ha donato la passione per la Conoscenza,  e insegnato il rispetto per la natura inteso in senso lato. Della vita amava tutto. Ciò che si conosce e ancor più ciò che non si conosce. Ci ha insegnato a essere curiosi, a porci domande e dubbi. E a non accontentarci. La Conoscenza è sì curiosità ma anche e soprattutto approfondimento e condivisione. ‘Cercate l’eccellenza in quel che fate’, ripeteva ai giovani, invitandoli appunto a non accontentarsi facilmente.

Un’altra sua grande passione, la musica, il pianoforte che ha fatto da sottofondo ai momenti più significativi della sua vita.

Se n’è andato con discrezione, con lo stesso garbo che da sempre lo ha contraddistinto. Di lui ci resteranno le sue magistrali lezioni, sulla vita, sulla bellezza della natura e della sua storia.

Ciao, Maestro, ci mancherai!

*Immagine ANSA/GIUSEPPE LAMI

venerdì 5 agosto 2022

5 agosto 1981: l’Italia dice addio al matrimonio riparatore (e al delitto d’onore)

 Accadeva oggi: il 5 agosto 1981, l’Italia, con la legge 442 metteva fine ad una pratica che definire ‘medievale’ è un puro eufemismo: le nozze riparatrici.

Una modalità che consentiva ad un uomo, dopo aver violentato una donna, nubile e illibata, di ‘riparare’ al malfatto sposandola. Senza poter avanzare alcuna pretesa in beni o averi come dote per la sposa.

Col matrimonio veniva meno ogni effetto penale e sociale, la sua colpa estinta.  

Per la donna, ‘disonorata, agli occhi della famiglia e della società, accettare quelle nozze era in pratica un obbligo al quale non era neanche lontanamente immaginabile potersi sottrarre.

Sino a quindici anni prima quando una diciassettenne di Alcamo per la prima volta disse NO al matrimonio riparatore.

Un no forte e chiaro che contribuì a cambiare per sempre il volto di un’Italia piuttosto retrograda in fatto di diritti umani.

Quel NO lo gridò all’Italia intera Franca Viola, divenendo, suo malgrado, il simbolo dell’emancipazione delle donne italiane. ‘Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce’, motivò così quel rifiuto durante il processo, supportata in questa decisione da tutta la sua famiglia.

Lei quella violenza la subì per lunghi otto giorni. Venne rapita, violentata, malmenata e lasciata a digiuno in un casolare dal suo ex fidanzato, allontanato dai genitori di Franca perché vicino ad una famiglia mafiosa.

Lui, dopo il fattaccio propose la ’paciata’, il matrimonio riparatore e la fine delle ostilità.

I genitori finsero di accettare e all’incontro stabilito si presentarono con la polizia che arrestò Filippo Melodia e i suoi complici.

Per Franca fu la fine di un incubo e l’inizio di una nuova vita.

‘Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé’, ha più volte dichiarato Franca Viola.  Quasi a voler minimizzare quell’atto che fece da apripista a tanti dibattiti che quindici anni dopo consentiranno al legislatore di legiferare in merito cancellando, con un colpo di spugna, ben due norme del codice penale: il matrimonio riparatore e il delitto d’onore.

Una sorta di attenuante, quest’ultimo,  per l’uomo che commette un delitto in quanto ‘offeso nell’onore’ dalla propria donna o da una donna della sua famiglia alle prese con una relazione carnale illegittima.

Occorrerà aspettare sino al 1996 per veder riconosciuta, con una nuova legge, la #violenzasessuale come reato non più contro la morale ma contro la persona che la subisce.

Tanta strada è stata fatta da allora. Ma tanta altra occorrerà percorrerne per  cambiare la concezione della donna, vista ancora oggi come ‘proprietà’ dell’uomo. I tanti, troppi femminicidi ne sono una drammatica conferma.

Tanta strada si dovrà ancora percorrere  per raggiungere quella parità di diritti, nel lavoro, nella vita familiare e privata per fare della nostra una società civile e moderna.

Occorrono nuove leggi e nuove prospettive.

Cominciando da una vera rivoluzione culturale e sociale senza le quali qualunque normativa messa in atto rischia di restare un mero intento, un’aspirazione e mai un cammino di vero cambiamento.

Chiara Farigu

*Immagine Hermesmagazine

giovedì 21 luglio 2022

Elezioni politiche: il 25 settembre si torna al voto

 Il 25 settembre gli italiani sono chiamati al voto per eleggere il nuovo governo: ‘ Il periodo che attraversiamo non consente pause negli interventi necessari a contrastare gli effetti dell’inflazione causata dalla crisi economica, dal costo dell’energia e dei prodotti alimentari’, ha dichiarato il Capo dello Stato poco prima che il Consiglio dei Ministri confermasse la data delle elezioni, durante la conferenza stampa subito dopo lo scioglimento delle Camere.

Mi auguro-ha poi aggiunto- che, se pur nell’intensa e a volte acuta dialettica della campagna elettorale, ci sia da parte di tutti un contributo costruttivo nell’interesse superiore dell’Italia’.

Una raccomandazione, oltre che un auspicio che ha rivolto a tutti i partiti, con voce piuttosto ferma, dopo quanto successo ieri al Senato che ha portato alle dimissioni del governo Draghi.

Ancora oggi gli analisti politici fanno a gara in tv e sulla carta stampata per analizzare i fatti e puntare il dito sui colpevoli del  ‘disastro certo’  al quale inevitabilmente andremo incontro senza più l’ombrello della rassicurante credibilità internazionale che globalmente viene riconosciuta all’ormai ex premier.

E’ questo il refrain più ripetuto letto e ascoltato.

Mentre i partiti politici sono già in campagna elettorale. Al momento tutti contro tutti ma in realtà in cerca di accordi più o meno segreti in vista di nuove alleanze così come impone la famigerata legge elettorale che non si è potuta o meglio mai voluta modificare.

Palpabile la delusione sul volto di Mattarella. Che mai avrebbe immaginato un epilogo così repentino quanto sconcertante, dopo la replica al Senato di Draghi, del governo voluto dallo stesso Presidente insediatosi 18 mesi fa dopo l’altrettante infausta fine del Conte II.

Tre governi, tutti miseramente fatti cadere, hanno caratterizzato questa anomala legislatura. Sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, vista l’assenza di prospettive per una nuova maggioranza, ha sottolineato il Capo dello Stato, è lo sbocco più naturale e anche l’ultimo atto soprattutto in momento complicato come questo.

Chiede responsabilità Mattarella, e un contributo costruttivo nell’interesse dell’Italia seppur consapevole che in  questa campagna elettorale nessun partito farà sconti all’altro e anche all’interno degli stessi dove già è cominciata la resa dei conti.

Basta ascoltare le loro interviste per comprendere quanto rovente, ancor più delle infuocate temperature di questa estate allo stremo, sarà il clima elettorale da oggi in poi sino al 25 settembre.

Chiara Farigu

martedì 19 luglio 2022

Trent’anni fa la strage di via D’Amelio. Sestu ricorda Emanuela Loi

 E’ il giorno del ricordo. Di uno dei fatti di cronaca più cruenti  della  storia della nostra Repubblica. Quella di via D’Amelio, una strage annunciata, a 57 giorni esatti dall’altra di Capaci  in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e i tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Il 19 luglio per me è tutti i giorni – sostiene Antonino Vullo, il sesto uomo della scorta del giudice e unico superstite – in via d’Amelio ci vado da solo anche durante l’anno. Ci vado perché ancora il ricordo di quel giorno rimbomba nella mia mente’. Si dice  stanco e amareggiato perché dopo trent’anni ancora non si è giunti ad una verità storica  poiché ‘c’è tanto ‘di occultato’ tra le istituzioni e le commemorazioni per stragi sono vissute più come un atto istituzionale dovuto che col cuore.

Lo stesso senso di amarezza si avverte nelle parole di Maria Claudia Loi, sorella di Emanuela, la poliziotta che in quell’attentato perse la vita.

‘E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei’.  Fu questa la prima reazione del Giudice Borsellino quando vide per la prima volta la giovanissima agente di polizia sarda in servizio come membro della sua scorta.

Era preoccupato per quelle cinque vite, il Giudice. Non tanto per la sua.

Sapeva di essere già condannato. Era solo una questione di tempo.

Nessuno dei due riuscì a proteggere l’altro.

Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, un’autobomba con circa 100 chili di tritolo esplode in via D’Amelio uccidendo lui, il Giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina,  Claudio Traina e la giovanissima Emanuela.  Una delle prime donne assegnate ad una scorta in Italia e la prima agente donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio.

Era il 19 luglio del 1992, esattamente 30 anni fa. Una ferita ancora aperta, tante le verità ancora sconosciute da portare a galla. Tanti i depistaggi e i silenzi di chi sa. La mafia, un cancro difficile da estirpare. ‘Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene’, era solito ribadire durante le interviste, ben consapevole che anche il silenzio, l’omertà, il girarsi dall’altra parte, uccide. Ancora più vigliaccamente.

Aveva appena 24 anni Emanuela. Sognava di diventare una maestra e di mettere su famiglia. Poi si fece tentare da un concorso per entrare in Polizia. Si preparò insieme a sua sorella ma solo lei superò tutte le prove col massimo dei voti. Aveva poco più di vent’anni quando dovette lasciare Sestu, cittadina a pochi chilometri da Cagliari dov’era nata e dove risiedeva con la famiglia, per trasferirsi a Trieste e accedere al corso di addestramento della durata di sei mesi.

Non pensava allora che quello sarebbe stato il primo (e l’ultimo)  distacco dai suoi cari e dal suo fidanzato.  Al termine del corso partì infatti per la nuova destinazione, Palermo.  Era anni difficili quelli, gli attentati mafiosi si susseguivano con una violenza inaudita, le forze dell’ordine e della magistratura erano le vittime sacrificali.

Alla famiglia Loi che viveva con crescente preoccupazione la lontananza e la divisa che Emanuela con orgoglio rappresentava, rispondeva: ‘Finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun pericolo. Solo con lui mi possono ammazzare’.

Mai parole furono più profetiche. Il 17 luglio, dal rientro di un periodo di ferie trascorse nella sua Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino. Diventando una delle prime agenti donne assegnate ad una scorta in Italia.

Il suo compito e quello degli altri quattro agenti era proteggere il Giudice ‘un morto che cammina’, come lui stesso ebbe a definirsi. Era ben consapevole il magistrato di come fosse divenuto l’obiettivo numero 1 di Cosa Nostra e di come non ci fosse scorta capace di evitare una nuova e più cruenta strage dopo quella di Capaci.

A non sapere era solo il quando sarebbe successo. Quel 19 luglio alle ore 16,58, quando si reca in via D’Amelio per salutare l’anziana madre, com’era solito fare. E’ allora che esplode una Fiat 126 parcheggiata poco distante.

Al suo interno circa 100 chili di tritolo. Troppi per quelle vite di cui rimane solo il ricordo. E la rabbia per non avere avuto né lo Stato né altre istituzioni preposte a preservarle. Perché quella di via D’Amelio fu la più annunciata delle stragi. ‘Solo con Borsellino mi possono ammazzare’. Così è stato per Emanuela.

Così è stato per gli altri quattro della scorta.

‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Oggi, nel giorno dell’anniversario, tante le commemorazioni  per ricordare quelle vite sacrificate. Ancora senza nome  i mandanti di quella strage.

La Giustizia e la Verità sono ancora lontane da venire.

A Sestu, diverse le iniziative per ricordare la loro concittadina vittima della mafia: un’opera scultorea ed un concerto dove verrà eseguito in prima assoluta un brano musicale composto da Ignazio Perra.

‘Il nostro obiettivo, sottolineano gli organizzatori, è quello di ricordare Emanuela Loi e le vittime innocenti di mafia che hanno tracciato un tragico periodo della storia d’Italia, nonché  le vicissitudini di quei cittadini che ancora oggi lottano quotidianamente in nome di valori fondamentali che sono alla base del nostro vivere civile e democratico’.

Chiara Farigu

giovedì 14 luglio 2022

Governo Draghi al capolinea? Il M5S non partecipa al voto di fiducia

 Tanto tuonò che piovve. Potrebbe essere riassunta così  la crisi politica che si è appena aperta al Senato con il non voto del Movimento cinque stelle (già annunciato ieri dal presidente Conte) al decreto legge Aiuti che comunque incassa la fiducia con 172 voti a favore. Draghi è salito al Colle e solo nelle prossime ore si conosceranno le decisioni che il Capo dello Stato intende mettere in atto.

Le ipotesi in campo sono tante e diverse. Le maratone televisive fanno a gara a chi sciorina quelle più verosimili e praticabili mentre i leader politici dei vari schieramenti lanciano strali contro i pentastellati accusati di irresponsabilità e addirittura di immoralità per aver aperto una crisi di governo con una pandemia non ancora debellata, una guerra in corso e una crisi economica che si taglia col coltello. Dimenticando le due crisi precedenti, avvenute in momenti altrettanto delicati, ma vissute, chissà perché e per come,  con maggior ‘leggerezza’. Anzi con orgoglio da chi le aveva provocate.

Fuori dal coro un’attenta analisi di Stefano Fassina, con un lungo post sul suo profilo Facebook:

"Non va drammatizzata la non partecipazione al voto del M5S al Senato per la conversione del DL Aiuti. Settimana scorsa, alla Camera dei deputati , il M5S ha dato la fiducia al governo e non ha partecipato al voto sulla conversione del Decreto perché non ha avuto risposte su temi decisivi per lavoratori, famiglie e imprese, dal termovalorizzatore al bonus 110%, sui quali non aveva votato il Decreto già in Consiglio dei Ministri. Al Senato, purtroppo, il voto è unico e coerentemente il M5S non sostiene il provvedimento.

Si sarebbe potuto evitare un passaggio così difficile se quanti oggi danno lezioni di senso di responsabilità verso la nazione si fossero ricordati di praticarlo in Consiglio dei Ministri due mesi fa, quando i ministri dell’allora gruppo parlamentare di maggioranza relativa chiesero di non inserire norme in radicale contraddizione con i principi fondativi del loro movimento e totalmente estranee ad un decreto di soccorso all’economia. O dal governo, il senso di responsabilità si fosse messo in atto di fronte alla richiesta di intervenire sul bonus del 110% per evitare il soffocamento di decine di migliaia di imprese.
L’isolamento del M5S e del Presidente Giuseppe Conte nel Palazzo non corrisponde alla realtà fuori. Chi oggi drammatizza punta a finire il M5S sulla strada dell'omologazione o sulla strada dell'irresponsabilità e rafforzare la prospettiva di una larga maggioranza centrista. Sarebbe un’aggravamento della drammatica sfiducia nella nostra democrazia.
Infine, ricordo alla mia metà del campo che, nonostante il ridimensionamento ed i problemi, il M5S porta nell'alleanza progressista la rappresentanza delle periferie sociali".
 
Come andrà a finire lo sapremo solo vivendo, recitava una noto refrain musicale.

Quel che è certo, chiacchiere a parte, è che abbiamo un bisogno impellente di un governo solido, compatto e di politici con P maiuscola. 

Praticamente una chimera...

Chiara Farigu

domenica 12 giugno 2022

Donna Francesca Sanna Sulcis, la signora dei gelsi

 La strada dell’emancipazione femminile in Sardegna parte da lontano. E, se escludiamo Eleonora d’Arborea, (giudicessa del 14° secolo che promulgò la famosa Carta de Logu,) ci porta direttamente alla ‘Signora dei gelsi’, ovvero a Francesca Sanna Sulcis, alla quale ieri Google ha dedicato il suo ‘Doodle’ (immagine rivisitata del suo classico logo) in occasione del suo 306° anno dalla nascita.

Sconosciuta ai più, anche agli stessi isolani, Donna Francesca è stata imprenditrice, educatrice, stilista e vera pioniera del settore tessile,  passata alla storia per la lungimiranza con la quale è riuscita ad istituire una nuova via della seta tutta sarda.

Procediamo per gradi, a cominciare dai suoi natali avvenuti a Muravera, nella splendida Costa Rey del Sud Sardegna,  nel 1716. Figlia di benestanti proprietari agricoli e di allevamenti di bestiame, a 19 anni si unisce in matrimonio con il giureconsulto Pietro Sanna col quale si trasferisce a Cagliari.

Seguiranno anni di grandi cambiamenti per la giovane neo-sposa. E di proficue intuizioni che contribuiranno ad ampliare l’attività di famiglia, che si troverà a gestire in seguito alla morte del padre, grazie alla coltivazione dei gelsi e alla coltura dei bachi da seta. In men che non si dica riuscì a convertire i depositi familiari preesistenti in veri e propri laboratori della seta.

Laboratori che attrezzò con telai modernissimi atti alla lavorazione del filato pregiato, riuscendo così a creare vestiti alla moda dalla lavorazione raffinata e perfetta.

Le sue creazioni hanno vestito le nobildonne di mezza Europa, compresa la zarina Caterina II di Russia, che, in un ritratto esposto all’Ermitage, indossa un suo abito.

Francesca da vera imprenditrice amava occuparsi di tutta la filiera produttiva: dal bozzolo al filo al tessuto e alla formazione di centinaia di giovani donne che istruiva personalmente in appositi corsi di formazione, che dava poi  titolo ad un’occupazione retribuita nei suoi laboratori.

Una vera antesignana della moderna datrice di lavoro femminile. Un’occasione per le donne di quel periodo di affrancarsi da una stato di povertà terrificante e di dipendenza della figura paterna o maschile in senso lato.

La seta filata e prodotta nei suoi laboratori, di qualità superiore rispetto alle altre in uso, trovò presto modo di farsi conoscere fuori dall’isola e nel resto d’Europa.

Nel 18° secolo Francesca inaugurò ‘l’alta moda’, i suoi abiti erano richiestissimi da dame e principesse per la manifattura confortevole ed elegante, la qualità eccelsa del filato e i colori brillanti, vere novità per l’epoca.

A lei si deve anche la creazione di un copricapo femminile, ornato da un ricco broccato, chiamato ‘su cuguddu’, che ancora oggi rappresenta un elemento fondamentale in alcuni abiti tradizionali del Campidano.

Una donna sui generis sia professionalmente che nella vita privata. Continuò la sua attività di imprenditrice anche dopo la morte del marito, cosa davvero inusuale per quei tempi che usava relegare le vedove tra le pareti domestiche a vivere in intimità il proprio lutto.

Muore a 94 anni, due anni prima, non avendo più eredi in vita, lascia tutti i suoi beni ai poveri di Muravera e alla Chiesa con il compito di amministrarli sapientemente. Unita alla promessa che alla sua morte avrebbero provveduto ad assicurarle un funerale semplice, privo di ogni atto celebrativo, com’era stata la sua vita tutta dedita al lavoro senza ostentazioni di sorta alcuna. Sebbene coraggiosa ed anticonformista.

Chi subentrò alla sua attività però non ha la stessa caratura morale e la lungimiranza imprenditoriale di Donna Francesca: le piantagioni di gelsi vennero sostituite da alberi da frutto e della lavorazione della seta non si sentì più parlare.

Tutto ebbe inizio e fine con la vita di colei che immaginò ideò costruì ed esportò nel mondo un’arte manifatturiera sconosciuta per quei tempi: innovativa, creativa moderna.

La sua morte lasciò un grande vuoto nella comunità sarda. La su avita e la storia è emersa dall’oblio grazie  all’opera scritta dal giornalista Lucio Spiga. E’ grazie alla sua penna se oggi abbiamo modo di conoscere un’imprenditrice ante litteram che grazie alla sua intuizione è riuscita ad imporsi in campo internazionale, creando lavoro femminile ed esportando più che abiti vere opere d’arte dai filati unici.

Il suo paese natale per omaggiarne la memoria le ha dedicato il Museo dell’Imprenditoria Femminile

Chiara Farigu

giovedì 9 giugno 2022

Papa Francesco dice no al mito dell’eterna giovinezza: ‘le rughe sono testimonianza dell’esperienza’

 Il monito di Papa Francesco contro l’ossessione di uomini e donne disposti a sottoporsi ad interventi chirurgici di ogni sorta pur di scongiurare gli effetti dell’età che avanza, mi giunge mentre, davanti allo specchio, noto un nuovo segno sul mio viso.  Un evidente ‘portato dell’età’, come viene definito in campo medico. O una ‘ruga di espressione’, quando invece si vuole addolcire la pillola a chi quell’età tenta di esorcizzarla.

Comunque sia, dopo averlo osservato in lungo e largo, ho fatto scorrere il dito indice su quel segno per misurarne la lunghezza, tastarne la profondità e per studiare la possibilità, attraverso qualche escamotage di renderlo meno evidente agli occhi degli altri.

L’esplorazione, a onor del vero, è durata pochi secondi, il ‘ma chi se ne frega’ è arrivato giusto in tempo per spazzare via ogni velleità di ritocco artificioso a suon di cipria e pennello.

Uno in più o in meno che sarà mai, mi son detta, pensiamo alle cose serie. Eppoi tutto sommato, a ben vedere, trova la sua ragion d’essere con il resto della fisionomia di ‘vecchia’ signora, quale appunto mi accingo ad essere.

Accettarsi per quello che si è e non struggersi per quello che non si è e non si sarà mai è la filosofia di pensiero che mi accompagna più o meno da sempre e che, fin dal primo lockdown, mi ha portata a dire basta tingere i capelli lasciando che il grigio e il bianco avessero il sopravvento su un biondo che di naturale non aveva più niente e men che meno senso alla mia veneranda età. Un taglio sbarazzino e fresco ha fatto, e senza rimpianto alcuno, il resto.

Accettarsi, appunto. E volersi bene, come dice Papa Francesco. A ogni età e a maggior ragione quando non si ha più la freschezza e la tonicità di un tempo. ‘Le rughe, ribadisce Francesco, sono testimonianza dell’esperienza, della maturità. E la saggezza è come il vino buono, tanto più invecchi, più è buono. Coltivare il mito dell’eterna giovinezza come un’ossessione è profondamente sbagliato: una cosa è il benessere, altra è l’alimentazione del mito’.

Pensiero tranchant, questo di Bergoglio sulla spasmodica rincorsa all’elisir dell’eterna giovinezza, costi che quel costi. Purché mantenga quanto promette: visi levigati, labbra turgide,  corpi scolpiti.

Sconfiggere la vecchiaia è la parola d’ordine in questa ‘società dello scarto’, come la chiama Francesco, pronta a sbarazzarsi del ‘vecchio’, un tempo dispensatore di conoscenze e saggezza, percepito oggi come un peso, una zavorra di cui liberarsi al più presto.

Diventare vecchi è un privilegio. E come tale va vissuto, raccomanda il Papa mentre assesta un duro colpo al mito della giovinezza artificiale.

E mentre le sue parole riecheggiano nella mia mente, con le mani ripasso quelle rughe sparse qua e là sul mio viso e mi domando se mai un giorno riuscirò ad esserne anche fiera, al pari di Anna Magnani, che dopo aver faticato  tanto per averle non intendeva in alcun modo né attenuarle né tanto meno nasconderle.

Tempo al tempo, dico tra me e me.  Intanto le accetto. Poi si vedrà.

*Immagine Ansa

giovedì 2 giugno 2022

Rino Gaetano dopo 41 anni è più vivo che mai

 C’è da scommetterci. Se Rino fosse ancora tra noi sarebbe l’anticonformista di allora. Lo stesso dissacratore di miti e celebrità che si credono tali.  Lo stesso fustigatore di costumi che metteva magistralmente in musica vizi e virtù di un’Italia poco avvezza ai cambiamenti quanto incline a mantenere un certo status quo.

Chissà quante ne avrebbe cantato di questi ultimi due anni e passa di pandemia. Chissà come avrebbe sbertucciato l’idea che  il virus ci avrebbe reso migliori facendoci riscoprire i veri valori della vita se manco abbiamo aspettato che finisse per riprendere a scannarci l’uno con l’altro più e meglio di prima.

E della crisi che aumenta ogni giorno di più? Dei governi che si susseguono senza la benedizione del popolo? Dei cannoni che son tornati a sparare per far valere insane voglie di supremazie espansionistiche?

Un talento senza tempo, quello di Salvatore Antonio Gaetano, per tutti Rino. Unico. Indimenticabile.

Attualissimo ancora oggi, a distanza di 41 anni dalla sua morte, avvenuta nella notte del 2 giugno del 1981 a Roma in un drammatico incidente stradale. Uno scontro frontale tra la sua macchina che aveva invaso la corsia opposta ed un camion.  Una morte assurda, sopraggiunta anche in seguito ai ritardi coi quali arrivò, ormai privo di vita al Gemelli, dopo essere stato respinto, a causa della mancanza di un’adeguata struttura di traumatologia cranica, da diversi ospedali.

Aveva appena 30 anni. Tanta musica alle spalle e tantissima altra ancora da regalare. Mio fratello è figlio unico, Gianna, Aida, Berta filava, A mano a mano, Sfiorivano le viole, Il cielo è sempre più blu, solo per citare alcuni brani fra i più famosi, sono un cult della canzone italiana.

Un mito assoluto. La sua ‘Nuntereggaepiù’ sembra scritta oggi. Cos’è cambiato 40 anni dopo da questi versi?

La castità
la verginità
la sposa in bianco il maschio forte
i ministri puliti i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni

ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati
auto blu
sangue blu

cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU’

Certo, cambierebbero i Cazzaniga, i Gianni Brera, i Gianni Agnelli citati nel testo ma non mancherebbero vip e politici di nuova generazione a prenderne il posto.

E’ stato, come i miti che rispettano, un anticipatore. Anche se ha faticato e non poco a farsi riconoscere come tale. La sua ironia, la voglia di dissacrare tutto e tutto, sempre pronto allo sberleffo non fu subito compresa da un’Italia ancora troppo bigotta e legata a certe tradizioni. E di certo non ne  ha avuto neanche il tempo.

Gran parte dei riconoscimenti sono avvenuti post mortem, la ristampa dei suoi album è incessante, è amatissimo dalle nuove generazioni. A conferma che il talento, quando c’è, è eterno e quello di Rino non è in  discussione.

Per ricordarne la memoria, dopo due anni online a causa dell’emergenza sanitaria, torna il Rino Gaetano Day, la manifestazione organizzata da Anna e Alessandro Gaetano, al Sessantotto Village di Roma, un grande evento musicale, una due giorni dove i diversi ospiti si alterneranno sul palco per ricordare e salutare l’artista attraverso i suoi puoi grandi successi entrati nel cuore del pubblico di tre generazioni.

Chiara Farigu

*Immagine Corriere.it *Immagine di copertina tratta da Il Messaggero

venerdì 15 aprile 2022

Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana

 Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana. Un maestro di narrativa che ha incantato e continua ad affascinare diverse generazioni di giovani e bambini.

Ricordo lo stupore dei miei piccoli alunni dinanzi alle favole e alle filastrocche nate dalla penna del Maestro. E che dire di ‘Giovannino Perdigiorno’, il distratto viaggiatore che perde tutto, l’autobus,  l’ombrello,  la via e persino la testa  ma non l’allegria, o di ‘Alice Cascherina’, che cade sempre dappertutto. Personaggi indimenticabili per bambini di ogni tempo.

Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo“, soleva dire. Un testamento per i tutti i giovani di oggi e ancor più di domani.

Rodari ha ricoperto molti ruoli: poeta, scrittore, saggista, giornalista, maestro. Anche maestro “clandestino”: nel 1937 insegnò italiano ad alcuni bambini ebrei, tedeschi, che si erano rifugiati in Italia sperando di salvarsi dalle persecuzioni razziali. Antifascista e partigiano.

Con le sue opere, tradotte in tutto il mondo, ha contribuito a rinnovare profondamente la letteratura per l’infanzia. Filastrocche in cielo e in terra, Il libro degli errori, Favole al telefono, Il gioco dei quattro cantoni, C’era due volte il barone Lamberto, La Grammatica della Fantasia, sono solo alcuni titolo tra i più conosciuti.

Diversi i testi contengono un messaggio pacifista.

E mai come oggi abbiamo bisogno di costruire ponti per unire popoli così distanti ma così vicini. Culture così diverse ma così speciali nelle loro specificità.

Questa  poesia sembra scritta oggi, tanto è attuale:

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare,

preparare la tavola

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno, né di notte,

né per mare, né per terra:

per esempio, la guerra.

Chiara Farigu

La nonna paterna? Una nonna a metà (con poche eccezioni)

  Essere nonne è un dono meraviglioso che la vita riserva a chi ha avuto la gioia di essere prima mamma. E’ come diventare madri una seconda...