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domenica 7 agosto 2022

Quando le vacanze sapevano di cotoletta panata

 Quando ero piccola io le vacanze erano solo quelle relative alla chiusura della scuola. Mio padre, uomo dai mille mestieri per mandare avanti la famiglia, non conosceva la parola ‘ferie’.

Non ne aveva diritto, almeno nel senso che le viene attribuito dalla costituzione e dai vari statuti dei lavoratori.

Tuttavia ne percepiva l’importanza, almeno per noi figli. Così, una o due volte la settimana si partiva per il mare. Un lusso a quei tempi, per chi viveva nei paesi dell’interno di un’isola come la mia. Mia madre di buon mattino cucinava le fettine panate da consumare in spiaggia e gli immancabili ‘mallereddus alla campidanese’ perché un piatto di pasta non doveva mancare mai. Tantomeno al mare, dove il cambio d’aria, stimolava l’appetito.

Acqua, vino e frutta completavano il menù della gita. Poi partenza, destinazione Cagliari, spiaggia del Giorgino, meravigliosa a quei tempi. Sabbia bianchissima, acqua cristallina e macchia mediterranea tutto intorno a fare da cornice.

Mio padre mia madre e mio fratello più piccolo in vespa, la macchina era appannaggio dei ricchi e noi non lo eravamo. Io e mio fratello più grande in pullman (l’autista era un amico di famiglia) sapeva dove farci scendere. La fermata era segnalata da un cartello che pubblicizzava la nota marca di un lanificio di quegli anni, fine anni ’50 primi anni ’60.

Da quel momento in poi cominciava la libertà. Di correre, ridere, giocare spruzzarci l’acqua l’un l’altro. Per i miei genitori vederci felici era la gioia più grande. Loro cercavano riparo sotto l’ombra di un pino marittimo ricurvo dallo sferzare del maestrale, tipico del nostro paesaggio. L’ombrellone sarebbe arrivato anni dopo. Allora ci si arrangiava con quel che si aveva, cioè poco. Ma a noi bastava. Perché sapevamo di essere dei privilegiati rispetto a nostri vicini di casa che osservano con non poca invidia le nostre escursioni.

Per merenda si mangiavano gli avanzi del pranzo, quelle fettine surriscaldate dal sole ci sembravano ancora più appetitose di quelle consumate a pranzo. La pelle arsa dal sole che picchiava senza pietà era lo scotto da pagare per quei momenti di libertà. Indimenticabili. Unici. Cosi diversi dalle vacanze odierne. Dove si ha di tutto e di più e chissà perché si è sempre alla ricerca di qualcosa che non c’è. Col broncio sempre stampato e con lo stress a mille che neanche l’aria di mare riesce a lenire.

Chiara Farigu 

*Immagine web

domenica 31 luglio 2022

E anche oggi piove sole (cit)…

 E anche oggi piove sole (cit)…

Mi sembra di sentirla mia madre quando, sfinita dalla canicola estiva, cercava refrigerio con quanto le capitava a tiro. Che fosse un cartoncino usato a mo’ di ventaglio, il grembiule tirato su e giù per i lembi, l’acqua del rubinetto per inumidire fronte e nuca.

Se poi alle temperature già di per sé roventi s’aggiungeva su bent’e sobi’, il caldo e umido scirocco, non c’era rimedio alcuno per poterla sfangare.

Ed ecco immancabile quel detto ‘e anche oggi piove sole’ che nessun meteorologo moderno saprebbe spiegare meglio.

Era esasperazione e sopportazione. Ma anche una sorta di litania da ripetere tra vicini di casa o tra parenti in risposta al ‘come stai’, ‘tutto bene’, ci sono novità’ che non esige necessariamente delle risposte in quanto puri e semplici convenevoli tra conoscenti.

A quelle parole seguivano immancabili scuotimenti di testa, braccia rivolte al cielo, mani in cerca dei fazzoletti di lino per asciugare guance intrise di sudore. Sugli occhi un unico desiderio: su ‘bentu estu’. Il maestrale. Coi suoi spifferi freschi e frizzantini, a volte dispettosi ma non per questo meno graditi, per riportare un po’ di frescura ed entusiasmo in quelle giornate soggiogate dall’inedia sino a tarda sera.

Eh, si, proprio come allora, anche oggi piove sole. In questa torrida estate senza fine.

Rovente e anomala. E non solo per il meteo. 

Ci è piovuta addosso tra capo e collo, per la prima volta nella storia repubblicana, una campagna elettorale nervosa e complicata in piena estate. Una campagna del tutti contro tutti per rinnovare il prossimo governo.  Una campagna dove a tener banco, più che i programmi sono le  scissioni, i tradimenti, le ammucchiate e i nuovi partitini che nascono come funghi.

Un clima politico impazzito. Quanto e forse più di quello meteorologico.

In attesa di una sana e vivifica rinfrescata, anche oggi piove sole.

Chiara farigu


martedì 14 giugno 2022

Napoli. Galeotta fu quella ‘scarpetta’ a via Toledo

 A volta basta poco per far riaffiorare un ricordo. Una vecchia foto ritrovata in un cassetto, il ritornello di una canzone, un profumo particolare. E quando si rimette a fuoco quel momento, tassello dopo tassello, l’unico desiderio è riviverlo come fosse la prima volta.

Ed eccomi qui, nuovamente a Napoli,  come tre anni fa, in un momento particolarmente felice della mia vita, grazie a questo scatto salvato nella memoria dello smartphone.
C’eravamo trovati bene e ci siamo tornati in quel ristorante di via Toledo. Nessun indugio sul menù, sapevamo già cosa ordinare. Il panorama tutto intorno era semplicemente stupendo, per la vista, già pregna di bellezza, colori e scenari unici, solo l’imbarazzo della scelta.

Accanto a noi, loro, padre madre e figlio, sicuramente stranieri. Forse tedeschi, ci siamo detti. Una bella coppia, lui sembrava un attore o uno sportivo, visto il fisico atletico. Lei, bionda e longilinea, si guardava attorno e sorrideva. Era chiaro che seduta a quel tavolo ci stava da dio. Il ragazzino si divertiva ad arrotolare (maldestramente) gli spaghetti e più ancora a ‘rubare’ dai piatti dei genitori cozze e vongole per divorarle con voracità.

Il cameriere faceva avanti e indietro con portate di ogni tipo. ‘Lui è un salutista’, ho azzardato, ha ordinato verdure ripassate in padella, al gratin e insalate di ogni tipo. Senza disdegnare fritture arrosti e guazzetti di pesce. Poi, come il più godurioso degli italiani inzuppa il pane nel sughetto del piatto del figlio. E nel farlo incrocia il mio sguardo: ‘scarpetta’, gli dico, mimando il gesto. ‘Scarpetta, good!’, ripete, mentre si alza e mi offre del vino.

Il ghiaccio ormai è rotto e cominciamo a raccontarci, più a gesti che a parole, qualcosa delle nostre vite. Si unisce anche il cameriere che spesso fa da interprete. Sono austriaci e festeggiano a Napoli il loro anniversario di matrimonio, ben 17, dice lui, facendo intendere che sono davvero tanti. ‘Noi trenta in più, ben 47’, gli dico io, certa di suscitare stupore e meraviglia per tanta longevità. E così è stato, infatti. Gli chiedo se è uno sportivo visto che ne ha tutta l’aria e la prestanza. ‘Sono uno chef’ mi dice e allora capisco perché abbia voluto assaggiare di tutto e di più: ‘per rubare qualche ‘segreto’ e farlo suo, gli rispondo.

Una piacevole compagnia. Un valore aggiunto a quella cornice meravigliosamente unica che mi accingevo a lasciare per fare rientro a casa. Al momento dei saluti, baci e abbracci come vecchi amici. E un baciamano come forse mai più nella vita.

Chiara Farigu

domenica 12 giugno 2022

Donna Francesca Sanna Sulcis, la signora dei gelsi

 La strada dell’emancipazione femminile in Sardegna parte da lontano. E, se escludiamo Eleonora d’Arborea, (giudicessa del 14° secolo che promulgò la famosa Carta de Logu,) ci porta direttamente alla ‘Signora dei gelsi’, ovvero a Francesca Sanna Sulcis, alla quale ieri Google ha dedicato il suo ‘Doodle’ (immagine rivisitata del suo classico logo) in occasione del suo 306° anno dalla nascita.

Sconosciuta ai più, anche agli stessi isolani, Donna Francesca è stata imprenditrice, educatrice, stilista e vera pioniera del settore tessile,  passata alla storia per la lungimiranza con la quale è riuscita ad istituire una nuova via della seta tutta sarda.

Procediamo per gradi, a cominciare dai suoi natali avvenuti a Muravera, nella splendida Costa Rey del Sud Sardegna,  nel 1716. Figlia di benestanti proprietari agricoli e di allevamenti di bestiame, a 19 anni si unisce in matrimonio con il giureconsulto Pietro Sanna col quale si trasferisce a Cagliari.

Seguiranno anni di grandi cambiamenti per la giovane neo-sposa. E di proficue intuizioni che contribuiranno ad ampliare l’attività di famiglia, che si troverà a gestire in seguito alla morte del padre, grazie alla coltivazione dei gelsi e alla coltura dei bachi da seta. In men che non si dica riuscì a convertire i depositi familiari preesistenti in veri e propri laboratori della seta.

Laboratori che attrezzò con telai modernissimi atti alla lavorazione del filato pregiato, riuscendo così a creare vestiti alla moda dalla lavorazione raffinata e perfetta.

Le sue creazioni hanno vestito le nobildonne di mezza Europa, compresa la zarina Caterina II di Russia, che, in un ritratto esposto all’Ermitage, indossa un suo abito.

Francesca da vera imprenditrice amava occuparsi di tutta la filiera produttiva: dal bozzolo al filo al tessuto e alla formazione di centinaia di giovani donne che istruiva personalmente in appositi corsi di formazione, che dava poi  titolo ad un’occupazione retribuita nei suoi laboratori.

Una vera antesignana della moderna datrice di lavoro femminile. Un’occasione per le donne di quel periodo di affrancarsi da una stato di povertà terrificante e di dipendenza della figura paterna o maschile in senso lato.

La seta filata e prodotta nei suoi laboratori, di qualità superiore rispetto alle altre in uso, trovò presto modo di farsi conoscere fuori dall’isola e nel resto d’Europa.

Nel 18° secolo Francesca inaugurò ‘l’alta moda’, i suoi abiti erano richiestissimi da dame e principesse per la manifattura confortevole ed elegante, la qualità eccelsa del filato e i colori brillanti, vere novità per l’epoca.

A lei si deve anche la creazione di un copricapo femminile, ornato da un ricco broccato, chiamato ‘su cuguddu’, che ancora oggi rappresenta un elemento fondamentale in alcuni abiti tradizionali del Campidano.

Una donna sui generis sia professionalmente che nella vita privata. Continuò la sua attività di imprenditrice anche dopo la morte del marito, cosa davvero inusuale per quei tempi che usava relegare le vedove tra le pareti domestiche a vivere in intimità il proprio lutto.

Muore a 94 anni, due anni prima, non avendo più eredi in vita, lascia tutti i suoi beni ai poveri di Muravera e alla Chiesa con il compito di amministrarli sapientemente. Unita alla promessa che alla sua morte avrebbero provveduto ad assicurarle un funerale semplice, privo di ogni atto celebrativo, com’era stata la sua vita tutta dedita al lavoro senza ostentazioni di sorta alcuna. Sebbene coraggiosa ed anticonformista.

Chi subentrò alla sua attività però non ha la stessa caratura morale e la lungimiranza imprenditoriale di Donna Francesca: le piantagioni di gelsi vennero sostituite da alberi da frutto e della lavorazione della seta non si sentì più parlare.

Tutto ebbe inizio e fine con la vita di colei che immaginò ideò costruì ed esportò nel mondo un’arte manifatturiera sconosciuta per quei tempi: innovativa, creativa moderna.

La sua morte lasciò un grande vuoto nella comunità sarda. La su avita e la storia è emersa dall’oblio grazie  all’opera scritta dal giornalista Lucio Spiga. E’ grazie alla sua penna se oggi abbiamo modo di conoscere un’imprenditrice ante litteram che grazie alla sua intuizione è riuscita ad imporsi in campo internazionale, creando lavoro femminile ed esportando più che abiti vere opere d’arte dai filati unici.

Il suo paese natale per omaggiarne la memoria le ha dedicato il Museo dell’Imprenditoria Femminile

Chiara Farigu

martedì 5 aprile 2022

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022: 50 anni (portati bene). I prossimi li facciamo contare

 5 aprile 1972. Piovigginava quel mercoledi e questo non poteva essere che di buon auspicio per quel matrimonio che si sarebbe celebrato di lì a poco. C’era gran fervore in casa, sebbene tutto fosse stato pianificato fin nei minimi dettagli. ‘Ancora un attimo’ , pensò Agnese mentre annusava il bouquet di ciclamini di campo che aveva avvolto nel tulle. In quell’attimo i pensieri si divertirono a tornare indietro nel tempo,  quando tutto ebbe inizio.

Un anno e mezzo prima …

Sorrise Nico alle raccomandazioni di sua madre: ‘Stai attento ai banditi e… vedi di non innamorarti di una sarda: sono tutte piccole, bruttine e pure pelose (!). E scrivi a mammà appena arrivi‘.

Continuò a sorridere anche sulla nave che lo portava nell’isola, l’unica Regione in cui non era mai stato neanche per una breve vacanza. E che desiderava conoscere a fondo. Ci andava per insegnare, ma anche per mettere una distanza con un amore finito che però bruciava ancora. Un anno, solo un anno, poi avrebbe chiesto il trasferimento e sarebbe tornato nella sua Campania. Dalla sua famiglia e dai suoi amici.

Ci restò 9 nove anni e ci sarebbe rimasto a vita se … c’è sempre un se che scombina programmi e progetti di vita. Ma il cordone ombelicale con l’isola non è stato mai reciso. Impossibile farlo. In quell’anno, in quell’unico anno in cui avrebbe dovuto fare il docente e il turista, il destino, o chi per lui, si divertì a rimescolare le carte.

Fin dal suo arrivo. Con la scelta della sede: Oristano o Norbio? Optò per il 2°. Quanto lesse su ‘I Comuni d’Italia’ lo convinse che il paese, ai piedi di una splendida pineta dovesse essere delizioso. Non era preparato a quel vento frizzantino che scompigliava la sua chioma che già da un po’ gli dava qualche grattacapo. Trovò curiosi quegli alberi piegati, resi curvi dal costante soffiare del maestrale nell’isola. E quel modo di parlare così caratteristico, musicale, latineggiante, unico. Odori e colori nuovi, una natura selvaggia da esplorare, chilometri di mare incontaminato da vivere. In una parola, un continente. Diverso e tutto da scoprire.

Una mattina di ottobre suonò dai sig.ri Faba. Il bidello della scuola, al quale si era rivolto per cercare casa gli disse che, se fosse stata libera, avrebbe fatto bingo. E aveva ragione. La casa, situata nella parte alta del paese aveva due camere con bagno libere. Ed un’ampia terrazza con una vista panoramicissima. Ma i padroni di casa erano titubanti. Avevano già ospitato, tempo addietro, una famiglia di milanesi, non erano intenzionati ad accollarsi un nuovo inquilino. Nonostante un’altra entrata facesse comodo in quella casa a monoreddito.

Tornò a scuola sconfortato. Quel “Le faremo sapere” non lasciava presagire niente di buono.
Non dovette aspettare molto. La mattina seguente il signor Luigi si presentò a scuola “Va bene, la casa è sua, se vuole”.
La valigia era pronta, i libri pure. Al termine delle lezioni andò spedito a prendere possesso di quello spazio che sentiva già suo.

Fu in quell’istante che vide Agnese per la prima volta. Sorrise nel stringerle la mano mentre gli occhi, con  sguardo compiaciuto appurarono quanto fossero lontano dal vero le raccomandazioni di sua madre: 18 anni, capelli biondi, studentessa liceale, ” ‘nu babà“, pensò, altro che bruttine e pelose le sarde! Piccoletta sì, ma decisamente graziosa.

*Immagine freepik

Continuò a sorridere mentre dava una sistemata ai suoi bagagli. Un tepore insolito e sconosciuto avvolse i suoi pensieri. Ancora non lo sapeva ma il ricordo di quell’amore finito lo stava già abbandonando.

Quella notte anche Agnese sorrise e fantasticò a lungo sullo “straniero” che per un po’ avrebbe condiviso parte della casa dei suoi genitori.

Nessuno dei due sapeva che Cupido aveva sganciato uno dei suoi dardi micidiali.

Nessuno dei due poteva neanche lontanamente immaginare che in quella stretta di mano c’era già scritto tutto.

L’inizio di una vita a due che dura da ben 50 anni.

Forse fu il caso o forse fu il destino a scrivere il canovaccio di questo sodalizio  che va avanti da oltre mezzo secolo. Quel che è certo è che Nico e Agnese (i nomi, compresi Norbio e Faba, sono di ‘fantasia’, ma mica tanto a onor del vero) ci hanno messo, e pure tanto, del loro.  E continuano a farlo. Oggi più di ieri e meno di domani, come recita il poeta.

Quanto c’entri la pioggia in questa lunga storia d’amore non saprei, quel che è certo è che ‘siamo ancora qua – eh già’, e , si deus cheret ( = a Dio piacendo) contiamo di restarci ancora insieme e al lungo.

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022. Con oggi son 50, portati bene, i prossimi, statene certi, li faranno contare.

Intanto, prosit!

Chiara Farigu


lunedì 6 dicembre 2021

Il presepe per dare un senso al natale che un senso non ce l’ha (più)

 Ho sempre fatto il presepe. Sia a casa che a scuola coi bambini.

Negli ultimi 20 anni ho avuto alunni di diverse nazionalità, rumeni, croati, russi, albanesi, colombiani e naturalmente africani di religione musulmana. Mai, nessun genitore si è permesso di protestare o di lamentarsi per uno dei simboli della nostra tradizione, forse il più importante, come il presepe. E alle drammatizzazioni natalizie, benché fossero esonerati dell’insegnamento RCI hanno sempre voluto partecipare. Perché volevano essere come gli altri, fare quello che facevano gli altri. Stare insieme agli altri.

Mi è sempre piaciuto farlo, a volte grande altre piccolo come quest’anno. Dà un senso a questa festività che ha perso il valore intrinseco della sua essenza.
Soprattutto di questi tempi, dove la parola chiave è ‘pandemia’. E con essa tutto l’armamentario che ne consegue, dai vaccini ai greenpass di base e rafforzati, dalle zone colorate alle mascherine anche all’aperto e ai distanziamenti sempre raccomandati.

Parole e atti divenuti nel tempo sempre più divisivi.

Tra chi li accetta seguendo i dettami della scienza per tornare a quella ‘normalità’ tanto agognata e chi li osteggia e rifiuta in quanto percepiti come strumenti atti a limitare in parte o in toto la libertà personale di scelta e di azione.

Il presepe, dunque, per recuperare, almeno in parte, quello spirito natalizio di altri tempi. Di pace. Con se stessi e con gli altri. Di solidarietà verso chi non ha e non può. Di amore universale. Di raccoglimento. Con i propri sogni, le aspettative i progetti da realizzare. Di condivisione e partecipazione. Di pausa. Dalle corse frenetiche fuori e dentro casa. Di relax mentale e spirituale. Di calore, di famiglia, di amicizia.

È questo il Natale, in fondo. Staccare la spina dagli affanni quotidiani per tornare ad essere un po’ più umani.

Per ricordarci chi siamo e dove andiamo.

Per rimediare a qualche errore, dire ti voglio bene a chi sopporta la nostra superficialità e tracotanza.

Certo, son tutte cose che si possono fare sempre ma chissà perché non si ha mai il tempo o la voglia. Che male c’è se ne approfittiamo a Natale con la complicità di quell’atmosfera magicamente creata per sospendere ogni belligeranza con noi stessi e con gli altri?

Quel presepe vuole ricordarci questo e tanto altro.
Indipendentemente dalla fede religiosa che ognuno vive come meglio crede.

Basterebbe lasciarsi andare, ascoltare il proprio cuore anche solo per un giorno.

Basterebbe essere meno cinici e credere che in fondo siamo migliori di quel che pensiamo o vogliamo apparire.

Basterebbe … basterebbe parlare di meno e ascoltare di più.

Chiara Farigu

*Scatto personale

giovedì 14 ottobre 2021

Alitalia, si chiude un’era: dopo 75 anni, oggi l’ultimo volo

 Alitalia, si chiude un’era: dopo 75 anni, oggi l’ultimo volo

Mi rattrista apprendere che oggi si conclude l’avventura di Alitalia. E ancor di più mi rattrista che l’ultimo volo in programma sia l’ Az 01586 in partenza da Cagliari-Elmas alla volta di Roma-Fiumicino.

Elmas Fiumicino (e viceversa), la mia tratta. Per oltre 40, insieme alla Tirrenia (giunta anch’essa al termine) è stata il trait-d’union con la mia isola.

Quanti sogni, quante aspettative in quei 40 minuti scarsi di volo.

Quanti patemi d’animo quando il maestrale soffiava di brutto o i temporali non davano tregua.
Quanti ritardi quanti rinvii quanti voli cancellati per i motivi più svariati.

Quante maledizioni quando il servizio lasciava a desiderare.

Ma quanta gioia ogni volta nel sentire la voce del comandante di turno che, nel ringraziare per aver scelto la compagnia di bandiera italiana, annunciava l’imminente atterraggio in Terra madre.

E quanti incontri al check in, squadre di calciatori in partenza o in arrivo, giornalisti, personaggi dello spettacolo.

Ricordo, seduto una fila davanti a me, Edoardo Bennato in ritorno da un tour nell’isola. Ho fissato per tutto il volo i suoi riccioli nerissimi ma ancor di più i suoi stivaletti di pelle piuttosto consumati.

E mentre lo guardavo canticchiavo mentalmente le sue canzoni. Da sempre l’artista partenopeo e tra i miei cantanti preferiti. Lo vedevo alle prese coi suoi strumenti che manovra con disinvoltura unica mentre canta, passando dalla chitarra all’armonica a bocca, dal bazoo al tamburello legato alla caviglia. Ero ancora nel mondo di Peter Pan quando il capitano ci diede il benvenuto a Fiumicino. ‘Ma come siamo già arrivati’, mi sorpresi a dire, quasi infastidita per dover scendere.

Ci saranno altri voli, altre compagnie, lo so.

Però oggi finisce un’avventura durata ben 75 anni. Il tricolore non svetterà più tra le nuvole.

Ed io non so se in quella tratta sognerò più allo stesso modo.
Chiara Farigu



lunedì 27 settembre 2021

Osservo con discrezione (e molta invidia) quell’amore appena sbocciato

 Il mondo è lontano in questo tratto di spiaggia. Possiamo contarci: un ragazzo che gioca col suo cane, un pescatore in attesa che almeno un pesce abbocchi ed il mio animo tormentato in cerca di pace.

Poi li intravedo. Avranno sì o no 16/17 anni.
Lui accarezza i capelli di lei, lei il ciuffo di lui.

Un bacio. Due baci. Tre baci. Poi perdo il conto.

Li osservo con discrezione. Ma anche con molta invidia.

Invidio quel sentimento fresco, quelle promesse scambiate che quasi certamente non verranno mantenute ma che al momento li fa camminare tre metri sopra il cielo.

Invidio la loro età ed il futuro che hanno davanti. Pur sapendo che non sarà sempre rose e fiori. Anzi!

Invidio la leggerezza dei loro pensieri, il loro mondo fatto di momenti rubati in quella terrazza dove fino a qualche settimana fa si accalcavano i bagnanti.

Il mondo coi suoi affanni è lontano anni luce da quella terrazza.

Gli unici occhi indiscreti, i miei.
 
C'è pace intorno.
E silenzio.
A parlare, i loro abbracci

Chiara Farigu
 
*Immagine Chiara Farigu
 

lunedì 20 settembre 2021

Chi vive al mare non può sentirsi solo mai

 Sono sola oggi al mare. Eppure non mi sento sola. Lo sciabordio delle onde sbobina ricordi e immagini catturate durante le passeggiate nei lunghi pomeriggi estivi.

Risento gli echi dei bambini che si divertono a costruire castelli di sabbia e la musica degli stabilimenti lasciata andare a tutto volume.

Rivedo gli ambulanti fare la siesta nelle ore più calde e i grattachecche fischiare per annunciare il loro arrivo.

Sugli scogli, immancabili, i pescatori alle prese con le loro esche. Sulla battigia, giovani super tatuati e ragazze strizzate in bichini che non lasciano nulla all’immaginazione. Gli uni e le altre, in cerca di sguardi e di conferme sulla loro avvenenza, vanno su e giù con nonchalance.

Sono sola ma non mi sento sola.

Il salmastro, reso ancora più intenso dal vento, sprigiona profumi meravigliosi, la brezza marina scompiglia capelli e ricordi.

Sono frammenti di un’estate agli sgoccioli tornati a galla prepotenti per essere rivissuti con gli occhi socchiusi.
Due gabbiani beccano qualcosa nell’arenile poi spiccano nuovamente il volo.

Mi avvio in compagnia dei miei pensieri. E comprendo perché chi vive al mare non può sentirsi solo.

Chiara Farigu

#Viverealmare

*Immagine  Chiara Farigu

lunedì 3 maggio 2021

Dal baule dei ricordi. Storie di vita e di morte

 Avevo partorito da qualche ora il mio secondogenito. Uno scricciolo di bimbo venuto al mondo con 3 giri di cordone ombelicale attorno al collo. Sembrava un piccolo marziano, ricoperto com’era di una melma verdastra e con un orecchio piegato. Ci volle un bel po’ per sentirlo piangere e più di qualche “sculacciata” terapeutica sul suo sederino rugoso. Era evidente che non aveva vissuto il periodo pre-natale in un habitat adeguatamente confortevole.

Non poteva essere altrimenti.

Veniva alla luce dopo una gravidanza a rischio ed un lento ma inarrestabile cambiamento del mio fisico minuto: aumento ponderale smisurato, valori pressori sballati, proteinuria e albuminuria fuori controllo con conseguenti edemi in diverse parti del corpo. I sintomi premonitori della pre-eclampsia c’erano tutti. Ma la giovane età, appena 24 anni, ebbe la meglio su quei segnali che i medici sottovalutarono ma che esplosero violenti  dopo qualche ora dal parto catapultandomi in uno stato comatoso per 48 interminabili ore.

Le mie condizioni erano davvero preoccupanti tanto che in paese si sparse la voce della mia prematura dipartita. Ma i medici dell’Ospedale Civile di Cagliari seppero riscattarsi alla grande e, dopo gli errori precedenti, far fronte alle conseguenti complicanze.

L’eclampsia, conseguenza di una gestosi gravidica portata all’estremo, generalmente culmina con la morte della gestante e/o anche del nascituro, ma è ancora più insidiosa se si manifesta dopo il parto e su donne non primipare. Ed io c’ero dentro con tutte le scarpe. Allo scadere delle 48 ore, con grande sollievo dei medici e ancor di più di mio marito che non si era allontanato un solo istante dal mio capezzale, cominciò il mio ritorno alla vita. Lento, sofferente ma determinato.

Un risveglio, il mio, concomitante col grande boato  che fece tremare le terre del Friuli che causò la morte di oltre 1000 persone e tanta distruzione. Quel sisma fu avvertito in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale, fino oltre Roma. Un evento che suscitò un forte impatto sull’opinione pubblica; peraltro fu anche il primo terremoto in cui ‘la diretta’ televisiva portò le immagini del dolore e della distruzione in tutte le case italiane.  Furono 137 i Comuni colpiti dalla scossa. Tremila i feriti. Circa 80mila gli sfollati. Scattò subito la solidarietà. Ai   friulani si aggiunsero tanti giovani arrivati da ogni parte d’Italia per portare sostegno e salvare vite umane.

In ospedale le notizie giungevano filtrate dai parenti in visita.  A quei tempi i telefonini e i dispositivi digitali odierni, le tv commerciali e le pay-tv, non erano neanche contemplati, per il resoconto della tragedia bisognava aspettare i tg della Rai.

Quant’era stridente e doloroso il contrasto tra la sofferenza e la morte,  che arrivava da fuori, con l’atmosfera che si respirava in quel reparto ostetrico dove tutto inneggiava al miracolo della vita.

Le due facce del nostro destino si palesavano in contemporanea con immagini uniche, irripetibili e  reali, seppur drammatiche.

Immagini e sensazioni ancora saldamente impressi nella mente, pronti però a far capolino dinanzi ad un ricordo o ad un evento speciale, come può essere la ricorrenza odierna  data da questo compleanno.

Sembra ieri, ma succedeva esattamente 45 anni fa. Una vita fa

Chiara Farigu 

*Immagine pixabay

lunedì 5 aprile 2021

Le pasquette dei tempi felici

 Ma quale uovo di cioccolata! A miei tempi la Pasqua profumava di ingredienti sapientemente amalgamati dalle mani di mia madre. E ancor più di una sua sorella, la vera artista della famiglia. Era lei che preparava la pasta di mandorle classica per gli amaretti e aromatizzata all’anice per i gueffus. Squisite palline confezionate a mo’ di caramelle che appena messe in bocca facevano emettere un sospiro. Da qui il nome col quale sono appunto conosciute fuori dall’isola.

Ma il pezzo forte era costituito da lui: su coccoi cun s’ou. Un pane unico nel suo genere. Non solo per gli ingredienti quanto per la preparazione dell’insieme. Che ogni mamma nonna o zia elaborava con mani esperte e con un pizzico di fantasia. La forma più gettonata era una sorta di cestino all’interno del quale mettere un uovo, su coccoi cun s’ou.

Il coccò con l’uovo. Una vera prelibatezza per la merenda  di pasquetta. Si partiva verso le tre del pomeriggio in fila con le ‘maestre’ dell’oratorio.
Si andava in pineta o in un’altra zona di campagna. Si cantava si giocava si rideva tanto.

Ci bastava poco per essere felici. Fare merenda con su coccoi era uno di quei momenti. O giocare con le amiche in mezzo al prato a ‘regina reginella’ quando l’unica ‘corona’ che allora conoscevamo era quella di cartone che passando di testa in testa ci incoronava regine per qualche minuto.

Non c’era il divieto di assembramento come oggi né si doveva rispettare la distanza sociale. Eravamo felici ma forse non lo sapevamo. E se lo sapevamo, quando e perché abbiamo smesso di esserlo?

Quanti ricordi in una sola foto!

Chiara Farigu 

In quella stretta di mano c’era già scritto tutto

 5 aprile 1972. Piovigginava quel mercoledi e questo non poteva essere che di buon auspicio per quel matrimonio che si sarebbe celebrato di lì a poco. C’era gran fervore in casa, sebbene tutto fosse stato pianificato fin nei minimi dettagli. ‘Ancora un attimo’ , pensò Agnese mentre annusava il bouquet di ciclamini di campo che aveva avvolto nel tulle. In quell’attimo i pensieri si divertirono a tornare indietro nel tempo,  quando tutto ebbe inizio.

Un anno e mezzo prima …

Sorrise Nicola alle raccomandazioni di sua madre: ‘Stai attento ai banditi e… vedi di non innamorarti di una sarda: sono tutte piccole, bruttine e pure pelose (!). E scrivi a mammà appena arrivi‘.

Continuò a sorridere anche sulla nave che lo portava nell’isola, l’unica Regione in cui non era mai stato neanche per una breve vacanza. E che desiderava conoscere a fondo. Ci andava per insegnare, ma anche per mettere una distanza con un amore finito che però bruciava ancora. Un anno, solo un anno, poi avrebbe chiesto il trasferimento e sarebbe tornato nella sua Campania. Dalla sua famiglia e dai suoi amici.

Ci restò 9 nove anni e ci sarebbe rimasto a vita se … c’è sempre un se che scombina programmi e progetti di vita. Ma il cordone ombelicale con l’isola non è stato mai reciso. Impossibile farlo. In quell’anno, in quell’unico anno in cui avrebbe dovuto fare il docente e il turista, il destino, o chi per lui, si divertì a rimescolare le carte.

Fin dal suo arrivo. Con la scelta della sede: Oristano o Norbio? Optò per il 2°. Quanto lesse su ‘I Comuni d’Italia’ lo convinse che il paese, ai piedi di una splendida pineta dovesse essere delizioso. Non era preparato a quel vento frizzantino che scompigliava la sua chioma che già da un po’ gli dava qualche grattacapo. Trovò curiosi quegli alberi piegati, resi curvi dal costante soffiare del maestrale nell’isola. E quel modo di parlare così caratteristico, musicale, latineggiante, unico. Odori e colori nuovi, una natura selvaggia da esplorare, chilometri di mare incontaminato da vivere. In una parola, un continente. Diverso e tutto da scoprire.

Una mattina di ottobre suonò dai sig.ri Sirigu. Il bidello della scuola, al quale si era rivolto per cercare casa gli disse che, se fosse stata libera, avrebbe fatto bingo. E aveva ragione. La casa, situata nella parte alta del paese aveva due camere con bagno libere. Ed un’ampia terrazza con una vista panoramicissima. Ma i padroni di casa erano titubanti. Avevano già ospitato, tempo addietro, una famiglia di milanesi, non erano intenzionati ad accollarsi un nuovo inquilino. Nonostante un’altra entrata facesse comodo in quella casa a monoreddito.

Tornò a scuola sconfortato. Quel “Le faremo sapere” non lasciava presagire niente di buono.
Non dovette aspettare molto. La mattina seguente il signor Luigi si presentò a scuola “Va bene, la casa è sua, se vuole”.
La valigia era pronta, i libri pure. Al termine delle lezioni andò spedito a prendere possesso di quello spazio che sentiva già suo.

Fu in quell’istante che vide Agnese per la prima volta. Sorrise nel stringerle la mano mentre gli occhi, con un sguardo compiaciuto appurarono quanto fossero lontano dal vero le raccomandazioni di sua madre: 18 anni, capelli biondi, studentessa liceale, ” ‘nu babà“, pensò, altro che bruttine e pelose le sarde! Piccoletta sì, ma decisamente graziosa.

Continuò a sorridere mentre dava una sistemata ai suoi bagagli. Un tepore insolito e sconosciuto avvolse i suoi pensieri. Ancora non lo sapeva ma il ricordo di quell’amore finito lo stava già abbandonando.

Quella notte anche Agnese sorrise e fantasticò a lungo sullo “straniero” che per un po’ avrebbe condiviso parte della casa dei suoi genitori.

Nessuno dei due sapeva che Cupido aveva sganciato uno dei suoi dardi micidiali.

Nessuno dei due poteva neanche lontanamente immaginare che in quella stretta di mano c’era già scritto tutto.

L’inizio di una vita a due che dura da ben 49 anni.

 

Forse fu il caso o forse fu il destino a scrivere il canovaccio di questa storia d’amore lunga quasi mezzo secolo. Quel che è certo è che Nicola e Agnese (i nomi sono di ‘fantasia’) ci hanno messo del loro.  E continuano a farlo. Oggi più di ieri e meno di domani, come recita il poeta.

Chiara Farigu

*Immagine freepik

lunedì 7 dicembre 2020

Un Natale diverso

 'Sarà un Natale diverso, ma non meno autentico',  ha detto il premier Conte dopo aver elencato le misure restrittive per contenere i contagi durante le festività. Un Natale più intimo, meno sfarzoso.

Un Natale fatto di cose genuine, com'era quello dei nostri nonni, dei nostri genitori e, per moti di noi, della nostra infanzia. Quando il consumismo, così come lo intendiamo oggi, ancora non aveva capolino per stravolgere usi e costumi tipici delle tradizioni.

Babbo Natale io l’ho scoperto che ero già grande. Come l’albero che è arrivato dopo. I bambini di un tempo scrivevano la letterina a Gesù Bambino. La si preparava a scuola sotto l’occhio vigile della maestra. Poi, ripiegata accuratamente, la si metteva vicino alla grotta per essere certi che il Bambinello la leggesse.

Le richieste erano semplici, così com’erano semplici quei tempi che sono volati via in un attimo. O almeno così sembra nel ricordo di un’età che non c’è più.

I regali erano davvero quelli utili. Le scarpe nuove o il nuovo cappotto, o qualcosa per la scuola. Indumenti o accessori che sarebbero stati comprati comunque. Ma che impacchettati e fatti trovare la notte di Natale avevano un altro sapore, per noi bambini.

In genere era la befana a esaudire qualche richiesta più frivola. Ma sempre con parsimonia. Perché la calza era in gran parte riempita di frutta secca e qualche dolcetto. E l’immancabile carbone. A futura memoria.

Anche il panettone l’ho scoperto che ero già grande. A casa mia le tradizioni erano altre. Tradizioni che oggi stentano a resistere perché la tv ha omologato tutto, l’arte culinaria e persino i gusti.

Gli amaretti, era questa la specialità della casa. Rigorosamente fatti in casa, ricordo la fragranza che durava giorni e giorni, inconfondibile. E poi i “gueffus” noti come ‘sospiri’, palline di pasta di mandorle aromatizzate con l’anice e confezionate con la carta velina colorata a mo’ di caramelle. Per i più golosi le ‘pabassinas’, le praline a forma di rombo farcite con l’uva passa e impastate con ‘sa saba’, il classico mosto d’uva cotto.
Erano questi i dolci che arricchivano la tavola natalizia e tutto il periodo delle feste. Immancabile anche il torrone di Tonara e il gateau sempre e solo a base di mandorle.

Prelibatezze preparate artigianalmente, in famiglia, con zie e cugine e spesso coi vicini di casa coi quali ci si scambiavano ingredienti e ricette per metterli a punto nel rispetto della tradizione. La mandorla era la regina degli ingredienti, predominava sugli altri, eternamente presente anche nella frutta secca, consumata al naturale o ‘infornata’ o inserita all’interno di un fico secco per esaltarne la fragranza.

Una tradizione che fatica a resistere. Forse non esiste già più. Le famiglie non sono più le stesse, in casa si sta sempre meno, ai fornelli poi, poco o niente.

La pubblicità ha fatto il resto, omologando sapori e saperi.

Mentre ricordo i preparativi di un tempo lontano, il mio sguardo indugia sul cesto posizionato accanto all’albero di natale. Tra torroni, torroncini, arachidi, noci, datteri e barrette di cioccolata di varie marche troneggia prepotente un panettone. Accanto un pandoro, per venire incontro ai gusti di tutti. Di chi adora i canditi e l’uva passa e di chi invece li detesta.

Realizzo in un istante che manca qualcosa. Mi mancano quei tempi in cui avevamo poco ma eravamo felici. Ma allora forse non lo sapevamo. Inevitabilmente, un groppone mi sale in gola. Ma è questione di un attimo. Il Natale è anche questo: tuffarsi nei ricordi per rivivere momenti e affetti sempre presenti.

 Chiara Farigu 



La nonna paterna? Una nonna a metà (con poche eccezioni)

  Essere nonne è un dono meraviglioso che la vita riserva a chi ha avuto la gioia di essere prima mamma. E’ come diventare madri una seconda...