il blog di chiarafarigu

venerdì 15 aprile 2022

Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana

 Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana. Un maestro di narrativa che ha incantato e continua ad affascinare diverse generazioni di giovani e bambini.

Ricordo lo stupore dei miei piccoli alunni dinanzi alle favole e alle filastrocche nate dalla penna del Maestro. E che dire di ‘Giovannino Perdigiorno’, il distratto viaggiatore che perde tutto, l’autobus,  l’ombrello,  la via e persino la testa  ma non l’allegria, o di ‘Alice Cascherina’, che cade sempre dappertutto. Personaggi indimenticabili per bambini di ogni tempo.

Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo“, soleva dire. Un testamento per i tutti i giovani di oggi e ancor più di domani.

Rodari ha ricoperto molti ruoli: poeta, scrittore, saggista, giornalista, maestro. Anche maestro “clandestino”: nel 1937 insegnò italiano ad alcuni bambini ebrei, tedeschi, che si erano rifugiati in Italia sperando di salvarsi dalle persecuzioni razziali. Antifascista e partigiano.

Con le sue opere, tradotte in tutto il mondo, ha contribuito a rinnovare profondamente la letteratura per l’infanzia. Filastrocche in cielo e in terra, Il libro degli errori, Favole al telefono, Il gioco dei quattro cantoni, C’era due volte il barone Lamberto, La Grammatica della Fantasia, sono solo alcuni titolo tra i più conosciuti.

Diversi i testi contengono un messaggio pacifista.

E mai come oggi abbiamo bisogno di costruire ponti per unire popoli così distanti ma così vicini. Culture così diverse ma così speciali nelle loro specificità.

Questa  poesia sembra scritta oggi, tanto è attuale:

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare,

preparare la tavola

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno, né di notte,

né per mare, né per terra:

per esempio, la guerra.

Chiara Farigu

“Àrbores”, in un docu-film la Sardegna degli alberi che non ci sono più

 Conoscere la Storia di un’isola come la Sardegna non è semplice. Anzi è un’impresa piuttosto ardua, lo sanno bene gli stessi isolani che la abitano.

Figuriamoci per chi ‘viene da fuori’.

Si conoscono (e si apprezzano) le località turistiche più in voga, molto meno le altre spiagge altrettanto belle, forse anche più, ma meno battute; si conoscono i siti nuragici millenari e le bontà culinarie che la rendono unica. Il profumo del mirto, dell’elicriso e del corbezzolo non hanno segreti neanche per il turista fai da te e lo sferzare del maestrale che spettina cuori e pensieri è materia viva per poeti e scrittori di ogni tempo.

Una Terra unica. Con il suo susseguirsi di splendide baie lungo la costa e di varchi inaccessibili nell’entroterra.  Una Terra dai due volti. Dolce e aspra. Mite e dura. Riservata e accogliente. Rigogliosa e brulla allo stesso tempo.

Divenuta tale anche per via delle tante ferite che nel corso dei secoli le sono state inferte. C’è stato un tempo nel quale quest’Isola era coperta di boschi, ricca di fonti e materie prime, protetta dal vento. Poi, con l’arrivo dei  piemontesi l’isola cambia volto, colori e clima. I piemontesi iniziarono un’opera di  disboscamento senza eguali nell’intera isola che venne trattata al pari di una qualsiasi colonia anche se fu proprio lei a dare il nome a quel Regno da cui ebbe inizio il processo che portò all’Unità d’Italia. In meno di un secolo i piemontesi portarono a compimento un’operazione di saccheggio che gli spagnoli non erano riusciti a realizzare in secoli di dominio.

Quella legna e quel carbone sottratti alla Sardegna servirono a costruire lo sviluppo industriale del Nord mentre l’isola diveniva una terra spoglia, impoverita, desertificata.

A raccontare questa parte di storia, meglio noto come il tributo che i Sardi hanno pagato all’Unità d’Italia, il regista nuorese Francesco Bussolai, in un’emozionante docu-film,  “Àrbores”, fatto di immagini, documenti e testimonianze.

Galeotto fu il libro “Colpi di Scure e Sensi di Colpa” di Fiorenzo Caterini.  Una lettura illuminante per il regista sardo: ‘Mi ha fatto scoprire una storia che ignoravo e che le future generazioni dovrebbero conoscere. Un lavoro sulla memoria perduta’.

 ‘Àrbores’ racconta la storia del bosco del monte Ortobene di Nuoro. Un polmone verde che ha un vissuto comune ai boschi isolani, colpiti nell’800 dalla mano affilata del governo piemontese.

Diversi scrittori denunciarono il misfatto,  da Antonio Gramsci a Grazia Deledda, da Salvatore Cambosu a Giuseppe Dessì.

Un racconto che ognuno dovrebbe conoscere, per ricordare, riflettere, costruire consapevolezza e cambiamento. Una storia che non è solo locale, precisa il regista, ma che interessa tutti: oggi succede in Amazzonia.

E non è un caso che il docu-film, premiato al Babel Film Festival 2021, venga proiettato nelle scuole.  Gli effetti devastanti del disboscamento suscitano grande interesse tra i giovani, Greta Thunberg docet.

Chiara Farigu

martedì 5 aprile 2022

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022: 50 anni (portati bene). I prossimi li facciamo contare

 5 aprile 1972. Piovigginava quel mercoledi e questo non poteva essere che di buon auspicio per quel matrimonio che si sarebbe celebrato di lì a poco. C’era gran fervore in casa, sebbene tutto fosse stato pianificato fin nei minimi dettagli. ‘Ancora un attimo’ , pensò Agnese mentre annusava il bouquet di ciclamini di campo che aveva avvolto nel tulle. In quell’attimo i pensieri si divertirono a tornare indietro nel tempo,  quando tutto ebbe inizio.

Un anno e mezzo prima …

Sorrise Nico alle raccomandazioni di sua madre: ‘Stai attento ai banditi e… vedi di non innamorarti di una sarda: sono tutte piccole, bruttine e pure pelose (!). E scrivi a mammà appena arrivi‘.

Continuò a sorridere anche sulla nave che lo portava nell’isola, l’unica Regione in cui non era mai stato neanche per una breve vacanza. E che desiderava conoscere a fondo. Ci andava per insegnare, ma anche per mettere una distanza con un amore finito che però bruciava ancora. Un anno, solo un anno, poi avrebbe chiesto il trasferimento e sarebbe tornato nella sua Campania. Dalla sua famiglia e dai suoi amici.

Ci restò 9 nove anni e ci sarebbe rimasto a vita se … c’è sempre un se che scombina programmi e progetti di vita. Ma il cordone ombelicale con l’isola non è stato mai reciso. Impossibile farlo. In quell’anno, in quell’unico anno in cui avrebbe dovuto fare il docente e il turista, il destino, o chi per lui, si divertì a rimescolare le carte.

Fin dal suo arrivo. Con la scelta della sede: Oristano o Norbio? Optò per il 2°. Quanto lesse su ‘I Comuni d’Italia’ lo convinse che il paese, ai piedi di una splendida pineta dovesse essere delizioso. Non era preparato a quel vento frizzantino che scompigliava la sua chioma che già da un po’ gli dava qualche grattacapo. Trovò curiosi quegli alberi piegati, resi curvi dal costante soffiare del maestrale nell’isola. E quel modo di parlare così caratteristico, musicale, latineggiante, unico. Odori e colori nuovi, una natura selvaggia da esplorare, chilometri di mare incontaminato da vivere. In una parola, un continente. Diverso e tutto da scoprire.

Una mattina di ottobre suonò dai sig.ri Faba. Il bidello della scuola, al quale si era rivolto per cercare casa gli disse che, se fosse stata libera, avrebbe fatto bingo. E aveva ragione. La casa, situata nella parte alta del paese aveva due camere con bagno libere. Ed un’ampia terrazza con una vista panoramicissima. Ma i padroni di casa erano titubanti. Avevano già ospitato, tempo addietro, una famiglia di milanesi, non erano intenzionati ad accollarsi un nuovo inquilino. Nonostante un’altra entrata facesse comodo in quella casa a monoreddito.

Tornò a scuola sconfortato. Quel “Le faremo sapere” non lasciava presagire niente di buono.
Non dovette aspettare molto. La mattina seguente il signor Luigi si presentò a scuola “Va bene, la casa è sua, se vuole”.
La valigia era pronta, i libri pure. Al termine delle lezioni andò spedito a prendere possesso di quello spazio che sentiva già suo.

Fu in quell’istante che vide Agnese per la prima volta. Sorrise nel stringerle la mano mentre gli occhi, con  sguardo compiaciuto appurarono quanto fossero lontano dal vero le raccomandazioni di sua madre: 18 anni, capelli biondi, studentessa liceale, ” ‘nu babà“, pensò, altro che bruttine e pelose le sarde! Piccoletta sì, ma decisamente graziosa.

*Immagine freepik

Continuò a sorridere mentre dava una sistemata ai suoi bagagli. Un tepore insolito e sconosciuto avvolse i suoi pensieri. Ancora non lo sapeva ma il ricordo di quell’amore finito lo stava già abbandonando.

Quella notte anche Agnese sorrise e fantasticò a lungo sullo “straniero” che per un po’ avrebbe condiviso parte della casa dei suoi genitori.

Nessuno dei due sapeva che Cupido aveva sganciato uno dei suoi dardi micidiali.

Nessuno dei due poteva neanche lontanamente immaginare che in quella stretta di mano c’era già scritto tutto.

L’inizio di una vita a due che dura da ben 50 anni.

Forse fu il caso o forse fu il destino a scrivere il canovaccio di questo sodalizio  che va avanti da oltre mezzo secolo. Quel che è certo è che Nico e Agnese (i nomi, compresi Norbio e Faba, sono di ‘fantasia’, ma mica tanto a onor del vero) ci hanno messo, e pure tanto, del loro.  E continuano a farlo. Oggi più di ieri e meno di domani, come recita il poeta.

Quanto c’entri la pioggia in questa lunga storia d’amore non saprei, quel che è certo è che ‘siamo ancora qua – eh già’, e , si deus cheret ( = a Dio piacendo) contiamo di restarci ancora insieme e al lungo.

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022. Con oggi son 50, portati bene, i prossimi, statene certi, li faranno contare.

Intanto, prosit!

Chiara Farigu


venerdì 25 marzo 2022

Da una foto ingiallita, uno scrigno di ricordi e di emozioni

 Era in fondo ad un cassetto, insieme ad alcuni documenti ormai scaduti. Ingiallita dal tempo quella foto mi ha catapultata indietro di alcuni decenni. Facendomi rivivere ricordi ed emozioni e provare tanta nostalgia per quel tempo che è stato e per le persone care vive solo in fondo al cuore.

Nell’immagine la mia famiglia, al centro lei, una suora di clausura. Con la sua storia, la sua vita che è stata (e continua ad essere) anche parte della mia.

Suor Dolores, al secolo Gesuina, sorella di mio nonno Federico e zia di mia madre, decide di entrare in convento molto giovane, 16 anni o giù di lì. Una vocazione a prova di bomba. Opta per l’ordine più duro, le Clarisse, nonostante le resistenze familiari, il monastero di Arezzo diventa la sua dimora definitiva. La sua nuova casa, la sua nuova famiglia, tutto il suo mondo era lì, tra quelle mura.

La conobbi nell’estate nel 1973. Ero in campeggio a Follonica (GR) e insieme a mio marito decidemmo di recarci ad Arezzo per conoscere questa zia, della cui esistenza sapevo solo grazie agli scambi epistolari. Il mio nome lo devo lei e alla devozione di mia madre per Santa Chiara.

Volevo farle conoscere la mia famiglia, mio marito e il piccolo Massimiliano che stava per compiere un anno. Non fu difficile trovare il monastero, gli aretini seppero darci le giuste indicazioni meglio di quanto faccia oggi il navigatore.

Bussammo e, fornite le generalità via citofono, fummo fatti entrare nella sala d’attesa. Il fresco ed il silenzio furono le prime sensazioni provate. Lo sguardo si posò poi su quelle sbarre di ferro che separavano le sorelle dal resto del mondo.

L’attesa durò poco. Arrivò una suora, era la zia, già avanti negli anni che avrebbe voluto abbracciarmi ma non poté farlo. Ci sfiorammo le mani, attraverso quelle grate. I suoi occhi si fecero lucidi per la gioia nel sentire che lei, monaca dall’età di 16 anni, era sempre presente nei pensieri dei familiari.

Dopo un po’ arrivarono, alla spicciolata, una decina di consorelle con sedia a seguito. Gli occhi tutti puntati su quel bambino che muoveva i primi passi e diceva, a modo suo, le prime parole. Un bambolotto da accarezzare, da annusare, da mangiare di baci.

Arrivò l’ora di cena. Un’esperienza indimenticabile. Dalla “ruota conventuale”, girevole, fece capolino tutto l’occorrente per apparecchiare la tavola. Con la seconda girata arrivò la cena al completo. Semplice, coi prodotti del loro orto, ma squisita. Trascorremmo la notte in convento, in una camera arredata in modo francescano, che sapeva di pulito. Il mondo era lontano. E distanti erano i problemi che lo affliggevano. Ma questi erano presenti nelle loro preghiere, fin dalle primissime ore della giornata. Una vita contemplativa la loro, e di preghiera.

Il mattino seguente, la colazione, ancora qualche chiacchiera e i saluti. Con la promessa che ci saremmo riviste.

Promessa mantenuta una decina di anni dopo.

L’occasione si presentò quando i miei genitori decisero di venire “in continente” per trascorrere un po’ di tempo qui ad Anzio dove vivo. La famiglia era cresciuta, ora i bambini erano due e noi adulti eravamo quattro. Ma l’ospitalità fu la stessa, anzi migliore della precedente.

Suor Dolores aveva raggiunto la veneranda età di 80 anni e la madre superiore fece uno strappo alla regola. Ci permise di “oltrepassare” le grate e di abbracciarci fisicamente. Ricordava ancora il sardo la zia e desiderava sentirlo parlare. Era avida di notizie, voleva sapere tutto dei parenti, chi era vivo e chi no, con chi si era sposato tizio e cosa facevano caio e sempronio. Una bambina curiosa e impaziente. Ma di una dolcezza e di una serenità che sprizzavano da ogni poro.

Oltrepassando quelle grate, il mondo, e non solo noi, era entrato per qualche ora in quel convento. La vita, i ricordi, le corse dei bambini, i racconti avevano preso il posto della contemplazione e del silenzio.

Conservo un ricordo piacevolissimo di quelle due visite.

Non riuscivo a capire, prima di allora, perché il mondo e la vita fossero al di là delle grate, fuori dal loro uscio.

Non era così. La vita di contemplazione non era fine a se stessa, era dedita alla sofferenza del mondo, alle discriminazioni, alla povertà e la vita quotidiana era scandita in parti uguali da “ora et labora”. Giardinaggio, cucito, rammendo, conserve di verdure e marmellate, biscotti, distillati di erbe e altro ancora erano in parte a disposizione loro, il resto, la gran parte, per la comunità. Per i tanti che ne avevano bisogno. Molte e diversificate erano le opere di carità svolte in silenzio.

Nelle loro giornate non c’era spazio per l’ozio e il dolce far niente.

Se n’è andata a 99 anni lasciando un gran vuoto in quel monastero del quale era la memoria storica e punto di riferimento. Oggi, nel ricordarla, l’ho sentita nuovamente accanto a me, come in quei giorni.

Chiara Farigu

lunedì 21 marzo 2022

21 marzo: giornata mondiale della poesia

 Mi ero ripromessa, in questa giornata mondiale dedicata alla poesia, di scrivere qualcosa di significativo o quanto meno interessante  sulla ricorrenza odierna.

Poi mi sono imbattuta in questo scritto di Carla Vistarini ed ho desistito da qualunque proposito. Paroliera, i testi della canzoni più belle della musica italiana  portano la sua firma (La nevicata del ’56, Mondo, La voglia di sognare, sono solo alcuni esempi), scrittrice e sceneggiatrice televisiva di successo, Vistarini, vera professionista della parola, sa come colpire dritta al cuore regalando emozioni che lasciano il segno.

Cos’è la poesia? si domanda. La riflessione che segue, che vuol essere una sorta di risposta, è essa stessa poesia.

Ogni altro pensiero sarebbe stato non solo superfluo ma completamente inutile. Soprattutto il mio.

‘Che cos’è la poesia nessuno lo sa veramente. Nemmeno i grandi poeti. E’ un mistero che si manifesta su una pagina, su un muro, sulle parole scritte in fretta su un foglio, un biglietto del treno, o il tovagliolo di un bar dove qualcuno ha fermato quell’attimo perché non sia perduto.

Quell’attimo che appena scritto non è più di chi l’ha scritto, ma di tutti.

Ecco, la Poesia è ciò che tutti ritroviamo in quelle parole, mai pensate compiutamente ma sentite, possedute intimamente nell’animo da ognuno di noi. Parte di sé.
Ciò che sorprende è ritrovarle, nell’aria, nel vento, in un lampo di sole, in alcune canzoni, tra le righe di un libro, dove qualcuno, chiamato Poeta, per caso o per fiamma interiore, è riuscito a strappare dal volo affannoso del tempo quel piccolo piccolo piccolo pezzo di cuore’. (cit. Carla Vistarini )

venerdì 18 marzo 2022

Covid19: Greenpass e mascherine, addio dal primo maggio

 Dopo più di due anni di  divieti e restrizioni dovuti alla pandemia, si torna finalmente alla normalità. E dal primo maggio potremo dire addio definitivamente a greenpass (di base e rafforzato) e mascherine anche al chiuso e per accedere sui mezzi pubblici.

A darne conferma lo stesso presidente Draghi in conferenza stampa col ministro Speranza al termine del CdM.

Ritornare alla socialità e far ripartire l’economia è l’obiettivo del governo, ha precisato il premier che ha rivendicato la bontà del certificato verde per incentivare la campagna vaccinale atta a contenere gli effetti devastanti del virus e a scongiurare ulteriori chiusure.

‘Evitati oltre 80mila decessi, grazie ai vaccini’, ha ribadito Draghi nell’annunciare la fine delle restrizioni che avverrà per gradi. A cominciare dalla cessazione dello stato di emergenza fissato per il 31 marzo. Questo grazie alla costante diminuzione dei contagi negli ultimi mesi e alla minore incidenza di questi sui reparti di terapia intensiva.

Dal primo aprile il greenpass, sia quello rafforzato sia quello base, non sarà più obbligatorio per accedere a negozi, hotel, uffici pubblici, poste, banche, piscine, bar o ristorante se all’aperto.

Continuerà a essere invece obbligatorio sino al 30 aprile quello rafforzato per accedere a ristoranti e bar al chiuso, centri benessere, sale da gioco, discoteche, congressi ed eventi e competizioni sportive al chiuso e discoteche.

Novità anche per le scuole: la Dad andrà in soffitta in virtù dello stop  alle quarantene da contatto: l’isolamento sarà previsto solo per gli studenti e gli alunni contagiati.

L’obbligo vaccinale già in vigore per alcune categorie rimarrà sino al 15 giugno, sarà invece prorogato per il  personale sanitario e nelle Rsa.

Le Regioni  non saranno più colorate di giallo rosso o arancione ma torneranno a risplendere dei colori avuti in dono da madre natura.

Si torna alla normalità, dunque. Ma senza abbassare la guardia, avverte Draghi. E pronti a intervenire qualora la curva dei contagi decidesse di risalire.

Due anni e passa di pandemia (sanitaria ed economica), di distanziamento sociale, di chiusure e restrizioni di ogni tipo. Due anni di sofferenze e lutti. Oltre 150mila il numero dei decessi.

Due anni di vita innaturale, di ‘non-vita’. Vita che nessun decreto ci restituirà mai. 

Con le misure adottate dal CdM  la luce in fondo al tunnel è sempre più vicina. ‘Grazie a tutti gli italiani per l’altruismo e la pazienza- ha chiosato il Presidente del Consiglio-ora però si torna alla normalità’.

Guerra (quella vera) permettendo, eh!

Chiara Farigu

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mercoledì 16 marzo 2022

Aldo Moro: ricordando quel 16 marzo di 44 anni fa

 Decidemmo di fare shopping quel 16 marzo di 44 anni fa. Di buon mattino ci mettemmo in macchina, destinazione Cagliari. Avevo due bambini piccoli, uno di 6 anni, l’altro quasi di due. Si accodò pure mamma, le piaceva fare acquisti insieme a noi. Si respirava già aria di primavera, la natura era rigogliosa lungo il tragitto.

Prima tappa La Rinascente. Lì ci trovavi di tutto, ci potevi trascorrere l’intera mattinata girando da un piano all’altro. Insomma niente lasciava presagire quel che stava succedendo nella capitale. Improvvisamente l’annuncio: “Siete pregati di lasciare al più presto il negozio. Le saracinesche tra 15 minuti verranno chiuse. E’ stato rapito il presidente Aldo Moro. Si prega di mantenere la calma”.

Già, vai a sapere come. In men che non si dica, il panico. Un fuggi fuggi generale e la gara a chi scendeva prima le scale. Poi la vetrata d’uscita e, finalmente in strada. Caos totale: sirene di polizia spiegate, elicotteri in perlustrazione, gente che correva in cerca di un riparo. 

La paura era palpabile.

Arrivammo in macchina tra spintoni, urla e i bambini in lacrime che non riuscivano a capire tutto quello scompiglio improvviso dopo aver assaporato aria di festa fino a qualche minuto prima. Non avevamo i cellulari a quei tempi. E l’autoradio in macchina faceva le bizze. Tornati a casa quelle immagini in tv, quella macchina crivellata di colpi, gli uomini della scorta uccisi, tante le ipotesi del rapimento e dei suoi risvolti fatte da analisti e politologi che si susseguivano senza sosta.

 La rivendicazione del rapimento da parte delle Brigate Rosse, la lunga attesa dei comunicati. Le foto dalla prigionia e la trattativa con lo Stato.

Il dolore della famiglia, l’ambiguità della politica. Tra chi optava per l’intransigenza a prescindere e chi per trattare per la liberazione dello statista. Prevalse la linea dura, nessun accordo coi brigatisti, nessuno scambio con i terroristi prigionieri come chiesto.

Lungaggini errori caos: cinquantacinque giorni di terrore. Durante i quali Moro fu sottoposto a un processo da un improvvisato ‘tribunale del popolo’ istituto dai suoi rapitori. 

Processato e condannato a morte.

Infine il ritrovamento del corpo nel bagagliaio di quella Renault 4 in via Caetani. La fine di una tragedia. Ma non dei suoi misteri. Molti dei quali, oscuri ancora oggi. La verità forse non la sapremo mai.

A distanza di 44 anni, oggi lo stesso groppo in gola

Chiara Farigu

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martedì 8 marzo 2022

8 marzo: smettiamola, una volta per tutte, di chiamarla ‘festa della donna’

 Mi sono chiesta più volte, con quello che sta succedendo vicino a noi e il serio rischio di un nuovo conflitto mondiale, se fosse opportuno, e anche eticamente giusto, soffermarsi sulla ricorrenza odierna.

Si, è il caso. Perché anche oggi, soprattutto oggi, a pagare il prezzo più alto in questa assurda guerra a due passi da noi  sono soprattutto donne e bambini.  Pertanto diamo il giusto peso a questo evento e smettiamola, una volta per tutte di chiamarla ‘festa della donna’.

Sarebbe maledettamente riduttivo e oltremodo sbagliato. Quel che si commemora oggi è ‘la giornata internazionale della donna’. Che nulla ha a che vedere con l’uscita a cena in locali addobbati per l’occasione  per sole donne nei quali poi fare bisboccia.

E’ un evento per riflettere e per dibattere su quanto la politica e le istituzioni tutte possono e devono ancora fare per abbattere tabù, pregiudizi e retaggi culturali ancora oggi duri a morire.

Ventiquattro ore per ricordare le sofferenze, le discriminazioni ma anche le tante battaglie messe in campo, nel corso dei decenni, per conquistare autonomia, indipendenza economica, emancipazione, parità di diritti e doveri.

Ventiquattro ore per sottolineare non tanto quanto è stato fatto finora ma quanto rimane da fare.

Essere donne non è facile. Non lo è  stato nel passato e tantomeno lo è oggi. Dove si è chiamate ad accettare sfide sempre più dure e totalizzanti. E se da un lato occorre farsi trovare pronte, dall’altro le istituzioni tutte devono agevolare il cambiamento in atto garantendo le pari opportunità.

Perché mai come adesso il mondo ha bisogno dell’intelligenza, dell’intuito, della sensibilità, della creatività  e delle competenze specifiche del genere femminile.

Prima se ne prende atto, meglio è. A cominciare dalle stesse donne. Che devono ‘tenere botta’ e solidarizzare tra loro. 

Non chiamiamola festa, dunque. Perché,  solo quando la parità e il rispetto che si deve all’altra metà dell’universo verrà riconosciuto a prescindere, si potrà festeggiare.

Solo quando non sentiremo più parlare di ‘femminicidi’, uno ogni tre giorni e in drammatico aumento nel periodo della pandemia,  di centri antiviolenza, di discriminazioni  e di maltrattamenti di qualsiasi intensità e grado,  si potrà allentare la guardia.

Solo quando, prima ancora di una qualsiasi normativa ad hoc, saranno l’educazione, la corretta alfabetizzazione di genere, l’acquisizione di valori positivi  a riequilibrare le tante, troppe storture ancora presenti,  si potrà fare a meno di una giornata commemorativa.

Strano, quanti ricordi riaffiorano oggi nella mia mente.  Quando, mio padre, uomo dai mille mestieri, si adoperava per  rendere più gradevole ma soprattutto meno gravoso il lavoro domestico di mia madre.

Mi piace immaginare fosse un 8 marzo quando, contro la ritrosia di mia madre, che considerava quasi un lusso sperperare quei risparmi costati sudore e fatica, fece installare, fu tra i primi in paese, erano gli anni ’50,  l’acqua potabile. E sicuramente fu ancora un 8 marzo quando dotò la cucina di un frigorifero e la camera da pranzo di un televisore. E successivamente il bagno della lavatrice.

Mio padre, uomo di grande intelligenza sebbene di poca cultura, se avesse potuto, e a suo modo lo ha fatto, della madre dei suoi figli ne avrebbe fatto una regina.  A lui non piaceva imporre ma condividere e prevenire i desideri prima ancora che venissero espressi.

In quei gesti vi era tutta la gratitudine e il riconoscimento di un lavoro faticoso che solo l’occhio attento di un marito premuroso sapeva apprezzare.

Vi era rispetto e  riconoscenza infinita.  Vi era condivisione di un progetto comune.

Vi era sostegno reciproco e solidarietà. E senso di protezione sconfinato. Quello che ogni uomo che si rispetti, che sia il padre il compagno di vita o il datore di lavoro deve assicurare.

Valori per quei tempi non certo scontati. Quando le donne pagavano pegno dovuto a tradizioni arcaiche che le relegava ai margini della società. Pegno che in qualche modo continuano a pagare ancora oggi. Quando, a parità di mansione e di orario, percepiscono salari inferiori rispetto ai loro colleghi uomini. O come quando, in periodi di crisi, come l’ultimo  che stiamo vivendo, a perdere il posto di lavoro per prima sono ancora loro, le donne.

Da qui le battaglie portate avanti e le tante altre da combattere. La parità, a tutt’oggi, è una chimera. La strada è ancora è lunga e piuttosto impervia, ma non per questo bisogna demordere. Anzi.

E se, per prenderne atto (donne comprese) e agire di conseguenza servono eventi commemorativi, ben venga l’ennesima giornata a tema.

Con l’auspicio però che i buoni proponimenti, che oggi abbondano, non si esauriscono nell’arco delle 24 ore come bolle di sapone.

Chiara Farigu

*Immagine web

giovedì 3 febbraio 2022

Ma quell'accento un po' così che abbiamo noi (che siamo nati in Sardegna)

 Non ho mai pensato di avere un accento che mi penalizza quanto di averne uno che mi caratterizza. Che mi identifica immediatamente come figlia di una Terra meravigliosa, unica al mondo.

Capita che pronunci una vocale aperta anziché chiusa, o viceversa, come vorrebbe una corretta dizione, o qualche consonante un po’ arrotata, o di mettere il verbo a fine frase, anche se dopo più di 40 anni di residenza in 'continente' alcune asperità inevitabilmente si sono addolcite ma l’inflessione, e ci mancherebbe', è rimasta quella di una sarda verace fin dentro il midollo.
Una peculiarità che mi contraddistingue da tanta ‘romanita’ che mi circonda e che in parte sento mia, come una seconda pelle. E che nulla ha a che vedere con la conoscenza della lingua italiana che noi sardi, fatte le dovute eccezioni, parliamo correttamente.
Provo ancora un motto d’orgoglio quando qualcuno, appena mi sente parlare mi domanda se sono sarda. In quei pochi secondi mi sento avvolta da profumi suoni e immagini che sanno di mare, di alberi curvati dal maestrale, di bacche di mirto, di tavole imbandite di cibo genuino. Mi sento a casa. In pace con me stessa e con il mondo.
Per questo l’attacco che ha subito Geppi Cucciari, la conduttrice Rai, mia corregionale, da un utente web mi ha alquanto disturbata. ‘Ma i conduttori della tv pubblica non dovrebbero parlare italiano’? le ha domandato, dopo averle detto, da vero gentiluomo, che il suo programma fa cag***e.
Senza troppo scomporsi, la sua risposta. Che ha ricevuto quasi 20mila like:
‘A me non disturba affatto la critica sul programma, per quanto esistano modi diversi per muoverle. Ma mal sopporto commenti sul mio accento. Perché solo frutto della meravigliosa diversità del nostro paese.
Applausi!
Massimiliano Sollazzo, Vittoria Giordano e altri 8
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La nonna paterna? Una nonna a metà (con poche eccezioni)

  Essere nonne è un dono meraviglioso che la vita riserva a chi ha avuto la gioia di essere prima mamma. E’ come diventare madri una seconda...