il blog di chiarafarigu

sabato 15 maggio 2021

Stati Generali della Natalità: ‘Senza figli l’Italia è destinata a scomparire’

 Natalità: è unanime il grido d’allarme che giunge da Papa Francesco e dal presidente Draghi dall’Auditorium della Conciliazione di Roma in occasione degli Stati Generali dedicati appunto alla crisi demografica in Italia.

Un declino inarrestabile.

Solo 10 anni fa per ogni 100 residenti morti i neonati erano 96. Oggi se ne contano a malapena 67.
Si tratta ‘del più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal Paese dal 1918’, recita il report dell’Istat sugli indicatori demografici nel 2020.

Un trend negativo che è stato accentuato ancor più dagli effetti dell’epidemia Covid-19. Il nuovo record di poche nascite (404 mila, dati Istat 2020) e l’elevato numero di decessi (746 mila), il più alto mai registrato in Italia dal secondo dopoguerra (attualmente sono 124mila) aggravano la dinamica naturale negativa che caratterizza il nostro Paese.

Calano le nascite e di conseguenza calano i residenti, al primo gennaio del 2020 si contano 60 milioni 317mila italiani: 116mila in meno su base annua.

Non solo.

Stiamo diventando un Paese di vecchi e per vecchi.

Le cause? Più o meno le stesse che ci portiamo appresso da oltre un decennio: una crisi dura a morire e politiche insufficienti a favore dei giovani i quali, sempre più spesso, mettono in valigia sogni e aspettative e oltrepassano i confini in cerca di nuove e più redditizie opportunità lavorative.

Difficile metter su famiglia in assenza di lavoro o con lavori precari e sottopagati. Ancora più difficile poi per le donne riuscire a conciliare lavoro e famiglia. Pochi e insufficienti gli investimenti sulle famiglie, quasi inesistente la flessibilità sul lavoro.

E questo per molte di loro comporta dover scegliere tra un figlio o il lavoro. Una scelta sofferta. Che porta a rimandare il desiderio di maternità, è di 32,1 anni l’età media della prima gravidanza, e a contenere il numero dei figli, sempre più spesso unico.

Le conseguenze, come confermano periodicamente gli istituti di statistica, è l’inevitabile fenomeno delle ‘culle vuote’. Vuote di speranze, vuote di ricambio generazionale, vuote di linfa vitale: ‘Senza figli l’Italia è destinata a scomparire’ ha ribadito Il Presidente del Consiglio.

‘Se le famiglie non sono al centro del presente, non ci sarà futuro; ma se le famiglie ripartono, tutto riparte’, queste le parole di Papa Francesco, da sempre fautore della natalità e del sostegno alle donne affinché possano decidere in tutta tranquillità e con l’assistenza necessaria di mettere al mondo i figli. Le prime, doveroso ricordarlo, a perdere il lavoro, quando ce l’hanno, in periodi di crisi, oltre il 70% nell’anno covid, sono loro, le donne. Così come ad essere sottopagate, a parità di orario e mansioni, rispetto ai loro colleghi uomini.

Occorre investire sulle famiglie, è stato ribadito più volte al forum de Gli Stati Generali. Un primo passo arriva con l’assegno unico che dal prossimo anno verrà esteso a tutti, ha annunciato Draghi. Una ‘misura epocale’, così l’ha definita, che ci sarà anche negli anni a venire, ‘su cui non ci si ripensa l’anno dopo’.

Un primo passo certo. Ma ancora insufficiente per invogliare a far figli senza una prospettiva futura che garantisca lavoro stabile e ben retribuito e un welfare familiare adeguato.

La strada da fare è ancora molto lunga per lasciarsi alle spalle ‘l’inverno grigio e freddo’.

Invertire la rotta non solo si può ma si deve.

Ma senza una politica lungimirante e investimenti seri ancora una volta, ahimè, incontri a tema come quest’ultimo resteranno solo buoni proponimenti e nulla più.

Chiara Farigu 

*Immagine pixabay

venerdì 14 maggio 2021

Un anno fa ci lasciava il Maestro Ezio Bosso

 Se ne andava esattamente un anno fa, a 47 anni, nella sua casa di Bologna Ezio Bosso. Lasciando un gran vuoto nel modo della musica e nella cultura in generale.

Una morte avvenuta in piena pandemia, quando era impossibile onorare i defunti con qualsiasi tipo di cerimonia. A distanza di un anno, il Maestro potrà essere salutato presso il Cimitero monumentale di Torino, dove è stata depositata l’urna con le sue ceneri.

In omaggio al suo ricordo e alla sua arte sono previsti, sempre nel rispetto delle restrizioni covid, diverse manifestazioni sia in presenza ma soprattutto in streaming, a breve verrà pubblicato un cofanetto con musica e testi inediti del Maestro.

Non conoscevo Ezio Bosso. Lo scoprii per caso, quando, ospite  a Sanremo nel 2016, illuminò a giorno il palco dell’Ariston con la sua musica. Una esibizione da standing ovation la sua, pianista, compositore e direttore d’orchestra di fama internazionale che riuscì fin dalle prime note di ‘Following a bird’  a commuovere anche il più esigente e impassibile spettatore dell’ultima fila in sala  o quello annoiato sul divano di casa.

Ricordo i brividi lungo la schiena durante la chiacchierata con Carlo Conti, padrone di casa di quell’edizione. Lui affetto da una malattia degenerativa che gli impediva di deambulare e parlare come i cosiddetti ‘normali’,  raccontò come l’imbarazzo per quella sua disabilità fosse  più degli altri, i cosiddetti ‘i sani cronici’, come li chiamava, che sua.

La musica una passione coltivata fin da piccolissimo, a quattro anni, quando ha iniziato a studiarla con una prozia pianista. Una formazione continua la sua, un amore infinito per quell’arte che deve unire, emozionare, far sognare. ‘La musica dovrebbe essere materia d’insegnamento in tutte le scuole a partire dall’infanzia’, amava ripetere nelle sue interviste, il Maestro. ‘La musica è dentro di noi, è la nostra stessa essenza’. 

‘Se mi volte bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare’, disse alla Fiera del Levante, a Bari due anni fa, dopo un’esibizione che mandò in visibilio il pubblico presente. ‘Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza. E quando saprò di non riuscire più a gestire un’orchestra, smetterò anche di dirigere’.

Un annuncio che fu interpretato dalla stampa come un probabile ritiro. Prontamente smentito dal Maestro nel suo profilo Facebook. Nessun ritiro, se non dai concerti. La musica lui avrebbe continuato a dirigerla.

‘La malattia mi ha allenato alla quarantena’, raccontò in un’intervista dalla sua casa di Bologna dove viveva la fase uno anti-covid. Un solo motivo di sconforto, in quella casa entrava poco sole. Pertanto ‘la prima cosa che farò sarà mettermi al sole. La seconda, abbracciare un albero’.

Ciao, Maestro.  La tua musica continuerà  a regalarci meravigliose emozioni!

Chiara Farigu 


lunedì 3 maggio 2021

Massimo Ranieri, i 70 anni dello ‘scugnizzo' della musica italiana

 Era solo un ragazzino quando si sentì intimare dal padre ‘smettila di cantare che ci servi a casa’. E lui, Gianni Calone, in arte Massimo Ranieri, quinto di otto figli, iniziò fin da allora a guadagnarsi la pagnotta. Lavoretti umili, strillone di giornali, garzone di una panetteria, fattorino, commesso, barista, per portare in famiglia qualcosa, ma quel consiglio paterno, come si suol dire quando c’è la passione, da un orecchio gli entrò e dall’altro gli uscì.

Nato a Napoli nel rione Pallonetto a Santa Lucia, Massimo compie oggi 70 anni. Il suo debutto avvenne che era ancora uno  ‘scugnizzo’, 13 anni appena. Cantava in un bar quando viene notato da un discografico che gli propone di partire per un tour americano al fianco di Sergio Bruni.

E’ l’ inizio di una carriera sfolgorante che non ha conosciuto scossoni o momenti bui. Perché Massimo non è solo un cantante ma un artista a tutto tondo: cantante, attore, conduttore televisivo, regista teatrale, showman, doppiatore e ballerino. Con oltre quattordici milioni di dischi al suo attivo, è tra gli artisti italiani che hanno venduto il maggior numero di dischi nel mondo.

A 17 anni debutta a Sanremo in coppia con i Giganti col brano Da bambino. Ci torna nel 1969 con Quando l’amore diventa poesia, insieme a Orietta Berti, e nello stesso anno partecipa al Cantagiro con una delle sue canzoni più famose: Rose rosse.

Numerosi i suoi successi canori che hanno fatto da colonna sonora a intere generazioni di giovani: Vent’anni, Erba di casa mia, Se bruciasse la città, Perdere l’amore, brano col quale si aggiudicò la vittoria di Sanremo nel 1988, sono solo alcuni tra i più celebri e ‘sempreverdi’. Così come numerosi, ma perché alimentati dalla stampa e dalle case discografiche di riferimento che li volevano rivali, i ‘duelli’ con Gianni Morandi, altro astro nascente dell’epoca o con Al Bano.

Il teatro, un’altra grande passione, così come il cinema. Indimenticabile protagonista di ‘Barnum’, musical di grande successo dove oltre a recitare, cantare e ballare, Massimo  imparò a camminare sul filo, istruito dagli acrobati del circo di Liana Orfei, o in ‘Metello’ diretto dal grande regista Mauro Bolognini.

A chi gli domanda se preferisca fare l’attore o il cantante, l’artista partenopeo risponde : ”Io cerco di fare l’uomo di spettacolo”. E lui Massimo, nomen omen, anche se d’arte, mai pseudonimo fu così azzeccato, lo ha fatto e continua a farlo alla grande. Emozionandoci sempre, da qualunque palco schermo o studio televisivo.

Auguri Massimo!

Chiara Farigu 

*Immagine web

Dal baule dei ricordi. Storie di vita e di morte

 Avevo partorito da qualche ora il mio secondogenito. Uno scricciolo di bimbo venuto al mondo con 3 giri di cordone ombelicale attorno al collo. Sembrava un piccolo marziano, ricoperto com’era di una melma verdastra e con un orecchio piegato. Ci volle un bel po’ per sentirlo piangere e più di qualche “sculacciata” terapeutica sul suo sederino rugoso. Era evidente che non aveva vissuto il periodo pre-natale in un habitat adeguatamente confortevole.

Non poteva essere altrimenti.

Veniva alla luce dopo una gravidanza a rischio ed un lento ma inarrestabile cambiamento del mio fisico minuto: aumento ponderale smisurato, valori pressori sballati, proteinuria e albuminuria fuori controllo con conseguenti edemi in diverse parti del corpo. I sintomi premonitori della pre-eclampsia c’erano tutti. Ma la giovane età, appena 24 anni, ebbe la meglio su quei segnali che i medici sottovalutarono ma che esplosero violenti  dopo qualche ora dal parto catapultandomi in uno stato comatoso per 48 interminabili ore.

Le mie condizioni erano davvero preoccupanti tanto che in paese si sparse la voce della mia prematura dipartita. Ma i medici dell’Ospedale Civile di Cagliari seppero riscattarsi alla grande e, dopo gli errori precedenti, far fronte alle conseguenti complicanze.

L’eclampsia, conseguenza di una gestosi gravidica portata all’estremo, generalmente culmina con la morte della gestante e/o anche del nascituro, ma è ancora più insidiosa se si manifesta dopo il parto e su donne non primipare. Ed io c’ero dentro con tutte le scarpe. Allo scadere delle 48 ore, con grande sollievo dei medici e ancor di più di mio marito che non si era allontanato un solo istante dal mio capezzale, cominciò il mio ritorno alla vita. Lento, sofferente ma determinato.

Un risveglio, il mio, concomitante col grande boato  che fece tremare le terre del Friuli che causò la morte di oltre 1000 persone e tanta distruzione. Quel sisma fu avvertito in quasi tutta l’Italia centro-settentrionale, fino oltre Roma. Un evento che suscitò un forte impatto sull’opinione pubblica; peraltro fu anche il primo terremoto in cui ‘la diretta’ televisiva portò le immagini del dolore e della distruzione in tutte le case italiane.  Furono 137 i Comuni colpiti dalla scossa. Tremila i feriti. Circa 80mila gli sfollati. Scattò subito la solidarietà. Ai   friulani si aggiunsero tanti giovani arrivati da ogni parte d’Italia per portare sostegno e salvare vite umane.

In ospedale le notizie giungevano filtrate dai parenti in visita.  A quei tempi i telefonini e i dispositivi digitali odierni, le tv commerciali e le pay-tv, non erano neanche contemplati, per il resoconto della tragedia bisognava aspettare i tg della Rai.

Quant’era stridente e doloroso il contrasto tra la sofferenza e la morte,  che arrivava da fuori, con l’atmosfera che si respirava in quel reparto ostetrico dove tutto inneggiava al miracolo della vita.

Le due facce del nostro destino si palesavano in contemporanea con immagini uniche, irripetibili e  reali, seppur drammatiche.

Immagini e sensazioni ancora saldamente impressi nella mente, pronti però a far capolino dinanzi ad un ricordo o ad un evento speciale, come può essere la ricorrenza odierna  data da questo compleanno.

Sembra ieri, ma succedeva esattamente 45 anni fa. Una vita fa

Chiara Farigu 

*Immagine pixabay

mercoledì 28 aprile 2021

28 aprile: ‘Sa die de sa Sardigna’, la giornata del popolo Sardo

 Oggi, 28 aprile, in Sardegna è festa “nazionale”. Festa che, per il secondo anno consecutivo, a causa della pandemia ancora in corso, si festeggia nel chiuso delle proprie case, esponendo, chi vuole e chi può, fuori dai balconi la bandiera dei 4 mori.

E’ una ricorrenza della quale si parla poco e soprattutto si studia poco.

Sui libri di scuola non ve n’è traccia e se in qualche modo riesce a ritagliarsi uno spazio è grazie all’iniziativa personale di qualche insegnante che ne vuol tenere viva la memoria.

Perché conoscerne i fatti avvenuti in quella circostanza significa conoscere la storia delle proprie radici. E se è vero che la felicità di un popolo passa dalla conoscenza e dalla consapevolezza di ciò che ha subito e di quel che si è conquistato, col sangue dei propri avi, ricordare diventa un dovere. Da trasmettere alle nuove generazioni, anno dopo anno, giorno dopo giorno. Perché la ‘tirannia’ i soprusi le ingiustizie sono sempre dietro l’angolo. E non si è mai adeguatamente attrezzati per non farsi sopraffare.

La festività fu istituita il 14 settembre 1993, su iniziativa del cantautore Piero Marras (allora consigliere regionale eletto nelle file del Partito sardo d’Azione), e dal Consiglio Regionale che approvò la legge n° 44,  nominandola “Sa die de sa Sardigna” (il giorno della Sardegna), ovvero  la Festa del Popolo Sardo da celebrarsi il 28 aprile di ogni anno.

La data è stata scelta per ricordare “i vespri sardi” del 28 aprile 1974 che culminarono con la cacciata del viceré piemontese, Vincenzo Balbiano, accusato di rappresentare la tirannia del re sabaudo. Erano anni tormentati quelli, in Francia e in diverse città d’Europa e del mondo. E la Sardegna non era da meno. Anzi.

L’isola dal 1720, dopo un lungo periodo storico che la vide parte del Regno di Spagna, fu ceduta ai Savoia (duchi di Piemonte), che divennero Re di Sardegna. I Savoia però trattarono l’isola come una “colonia”, incuranti della povertà delle sue genti e dei diritti autonomistici del Regno.

Così i Sardi, stanchi di sopraffazioni e tirannie, chiesero a Torino che venissero lasciati loro gli incarichi più importanti e strategici dell’isola, poiché  i piemontesi  non erano in grado di comprendere e  quindi di  risolvere i problemi economici e  sociali che li riguardavano direttamente.

Più che una richiesta era necessità, di più,  un diritto.

Infatti, dopo aver respinto la flotta francese nel 1793 a Cagliari, i Sardi ritenevano di aver diritto alle cariche politiche e militari più importanti nella loro stessa terra. Ma il Re disse di no. Cominciò allora un malcontento generale che sfociò in un motto rivoluzionario quando Efiso Pintor e Vincenzo Cabras, i maggiori rappresentati del partito dei patrioti furono arrestati. Quegli arresti furono percepite come l’ennesimo affronto al quale si doveva reagire una volta per tutte.

Il 28 aprile del 1974 i viceré e tutti i piemontesi furono cacciati da Casteddu  ‘e susu (Cagliari), i quartieri nobili nei quali risiedevano, portati al porto e imbarcati sulla nave verso il “continente”.  C’è da sottolineare, e non è cosa da poco, che alla rivolta, quel giorno, parteciparono tutti, dai nobili ai contadini, senza distinzione di classe sociale e di ceto.

In  “limba” la festività  è nota anche come Sa di’ de s’aciapa = Il giorno dell’acchiappo,  poiché   la caccia ai  piemontesi, camuffati con gli isolani, fu messa in atto utilizzando qualsiasi stratagemma per poterli stanare e rispedire al mittente, ‘nara cixiri’ (pronuncia ‘ceci’), uno di questi.

La rivolta da Cagliari si diffuse in tutta la Sardegna, diventando una vera e propria rivoluzione.

Un canto,  Procurade ‘e moderare, barones sa tirannia! di Francesco Ignazio Mannu, divenne ed è tuttora considerato l’inno della Sardegna.

La prima strofa, un avvertimento che è già tutto un programma: una denuncia alla tirannia dei baroni:

Procurade ‘e moderare,

barones, sa tirannìa,

Chi si no, pro vida mia,

Torrades a pe’ in terra!

Declarada est ja sa gherra

Contra de sa prepotentzia,

E incomintzat sa passentzia

ln su populu a mancare.

 

Barones, sa tirannìa

procurade ‘e moderare,

procurade ‘e moderare

CERCATE DI MODERARE, BARONI, LA TIRANNIA.

Il canto termina con un incitamento alla rivolta Cando si tenet su bentu est preziosu bentulare (“quando si leva il vento, bisogna trebbiare”). E il 28 aprile trebbiarono alla grande.

Una giornata per riflettere su ciò che siamo oggi con uno sguardo rivolto al passato. Per ritrovare l’orgoglio, l’energia e la determinazione per combattere le sopraffazioni presenti oggi come ieri.

Chiara Farigu 


sabato 24 aprile 2021

Milva, addio alla ‘pantera di Goro’

 Ci lascia oggi, all’età di 81 anni,  un’altra delle interpreti più intense della canzone italiana: Milva, al secolo Ilvia Maria Biolcati.

‘La sua voce ha suscitato profonde emozioni in intere generazioni. Una grande italiana, un’artista che, partita dalla sua amata terra, ha calcato i palcoscenici internazionali, rendendo globale il suo successo e portando alto il nome del suo Paese. Addio alla pantera di Goro’, ha twittato il ministro della Cultura, Dario Franceschini.

Una carriera intensa e di grande successo, la sua.  Una voce graffiante, calda, originalissima.  Al suo attivo ben 173 album, tre dei quali realizzati con un altro grande della musica italiana: Franco Battiato.  E’ stata anche una veterana del  festival di Sanremo, arrivando terza nel ’61 e seconda l’anno successivo senza mai vincere alcuno. Nel 2018 le fu assegnato il ‘Premio alla Carriera’, che fu ritirato dalla figlia Martina Corgnati. 

Un’artista a tutto tondo. Negli anni ’70, sotto la direzione di Giorgio Strehler, divenne una delle attrici italiane più importanti per quanto riguarda le opere di Bertold Brecht, autore al quale dedicò anche due dischi ‘Milva canta Brecht’  e ‘ Milva Brecht’.

Amava diversificare il suo impegno. Passava con grande naturalezza dalla canzone popolare come ‘La filanda’ a quelle più impegnate come ‘Canti per la libertà’ e ‘Milord’, che fu un grande successo di Edith Piaf.

Perfezionista fino all’inverosimile, nel 2010, dopo aver pubblicato il suo ultimo album, decise di ritirarsi a vita privata.

Nel salutare il suo pubblico, mise a nudo le sue fragilità dovute a sopraggiunti problemi di salute  e alla conseguente difficoltà di mantenere immutata quella combinazione di versatilità passione e grande professionalità che da sempre la caratterizzava: ‘Voglio essere ricordata per quello che ho fatto e dato alla musica e al teatro.  Ho qualche sbalzo di pressione, una sciatalgia a volte assai dolorosa, qualche affanno metabolico; e, soprattutto, dati gli inevitabili veli che l’età dispiega sia sulle corde vocali sia sulla prontezza di riflessi, l’energia e la capacità di resistenza e di fatica, ho deciso di abbandonare definitivamente le scene e fare un passo indietro in direzione della sala d’incisione, da dove posso continuare ad offrire ancora un contributo pregevole e sofisticato’.

Un abbandono doloroso. Oggi l’ addio definitivo, dopo una lunga malattia, per  Milva ‘la rossa’.

‘Era grandissima sia come cantante che come attrice. Come teneva il palco lei non lo faceva nessuna. Sono profondamente addolorata perché va via una persona che ho ritenuto amica, una delle poche nell’ambiente musicale. Era una delle poche vere artiste internazionali che l’Italia abbia partorito’, così la ricorda Iva Zanicchi. ‘Io l’Aquila, lei la Pantera, due soprannomi che abbiamo faticato ad accettare. Ci dipingevano come rivali, eravamo amiche’.

Non c’è nessuno come lei. Mi dispiace per le altre cantanti italiane che hanno voci bellissime, ma lei era la più completa. Quando entrava lei sul palco non ce n’era per nessuno’, dice Cristiano Malgioglio, grazie al quale le fu tributato il Premio alla Carriera.

Chiara Farigu 

giovedì 22 aprile 2021

Nasceva oggi Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina

 Il 22 aprile del 1909 nasceva a Torino, insieme alla sorella gemella Paola,  Rita Levi-Montalcini, unica donna italiana premio Nobel per la medicina.

Dopo la laurea in medicina, ma fin dai primi anni di università si dedica allo studio del sistema nervoso. Studi che non interrompe neanche dopo la proclamazione delle leggi razziali (la sua famiglia era di origine ebrea) e che continuerà privatamente.

Nel 1947 si trasferisce negli Stati Uniti per continuare le sue ricerche e insegnare neurobiologia.

Nel 1952 si trasferisce in Brasile per continuare gli esperimenti di culture in vitro che porteranno all’identificazione  del fattore di crescita delle cellule nervose, conosciuto con l’acronimo NGF.

Sarà grazie a questa scoperta che nel 1986 riceverà il Premio Nobel.

Nel 1969 rientra in Italia per dirigere l’Istituto di Biologia Cellulare del CNR a Roma; nel 2001 viene nominata senatrice a vita ‘per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale’

La professoressa Montalcini ha continuato a studiare e a lavorare ininterrottamente sino alla sua morte avvenuta il 30 dicembre del 2012, alla veneranda età di 103 anni. ‘Il cervello, se lo coltivi funziona, era solita ripetere. Se lo lasci andare e lo metti in pensione si indebolisce. La sua plasticità è formidabile. Per questo bisogna continuare a pensare’.

Coraggiosa, determinata, credeva fortemente nella forza delle donne: ‘Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società’, questa una delle sue celebri frasi.

Donna, scienziata e maestra di vita: ‘Il male assoluto del nostro tempo è di non credere nei valori. Non ha importanza che siano religiosi oppure laici. I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte’. Come i suoi che resteranno nella storia.

Lo scorso novembre la Rai ha reso omaggio alla sua straordinaria vita di donna e di scienziata con una fiction liberamente ispirata ad uno spaccato di vita della studiosa e ricercatrice. A vestire i panni della neurobiologa torinese la bravissima Elena Sofia Ricci che ebbe il privilegio di girare alcune scene nella casa della Montalcini: ‘Sono rimasta molto colpita dalla sua semplicità. Una camera che definirei austera: letto singolo, scrivania, armadio. Microscopio, libri  (compreso il Nuovo dizionario dal piemontese all’italiano)  e  dischi di musica classica’.

Da sei anni, nel giorno della sua nascita,  si celebra  ‘la Giornata Nazionale della Salute della Donna’, il tema di questa  edizione è dedicato alla prevenzione.

Prevenzione come ‘atto d’amore’

Chiara Farigu

*Immagine ansa

mercoledì 21 aprile 2021

Morte di George Floyd, l’ex agente Chauvin è stato condannato per omicidio. Biden: ‘Ora c’è un po’ di giustizia’

 

“Colpevole” “Colpevole” “Colpevole.”

Dieci ore e nessun tentennamento per i 12 giudici che facevano parte della giuria popolare del tribunale di Minneapolis.  Derek Chauvin, l’ex agente di polizia responsabile della morte del 46enne  George Floyd  il 25 maggio 2020, è stato condannato tre volte, per altrettanti capi di accusa: omicidio colposo, omicidio di secondo grado preterintenzionale e omicidio di terzo grado.

Fondamentale per i giudici è stato quel video che fece il giro del mondo che mostrava Chauvin che teneva premuto il suo ginocchio sul collo dello sventurato afroamericano fino ad ammazzarlo. Non solo incurante delle sua urla ma alquanto soddisfatto del ruolo e della supremazia che in quel momento esercitava sulla vittima.

Durante il processo, i legali della difesa dell’agente di polizia hanno tentato di dimostrare che l’infarto sopraggiunto fosse conseguenza  di un  cuore ingrossato dall’uso di metanfetamine.

Tesi abilmente smontata dall’accusa  che ha saputo dimostrare che il decesso sia avvenuto  per soffocamento in quei drammatici  nove minuti di pressione esercitata sul collo da quel ginocchio che non ha mollato la presa neanche dinanzi alle suppliche disperate: ‘La verità è che George Floyd è morto perché il cuore di Derek Chauvin è troppo piccolo’.

Alla lettura del verdetto la folla presente ha lanciato un urlo di gioia: giustizia è stata fatta! La sentenza infatti rappresenta una svolta storica nella lotta contro il razzismo e le discriminazioni negli Stati Uniti. Anche se il cammino verso l’uguaglianza è ancora lungo e accidentato.

Il presiedente Biden, appresa la notizia, ha telefonato ai familiari di Floyd: ‘Niente migliorerà le cose, ma almeno ora c’è un po’ di giustizia’

L’ex poliziotto  rischia ora fino a 40 anni di carcere. La pena sarà stabilita dal giudice entro sei/otto settimane.

Chiara Farigu

*Immagine web

domenica 18 aprile 2021

Dal 26 aprile si riapre con ‘rischio ragionato’. E che Dio ce la mandi buona!

 La parolina magica ‘RIAPERTURA’, da tempo sperata poi invocata e ultimamente sempre più urlata nelle piazze di tutte Italia,  sta per diventare realtà.

Un rischio ragionato’, lo ha definito il Presidente del Consiglio Draghi, che contribuirà a far ripartire l’economia ormai al collasso dopo più un anno di pandemia.

Il lavoro, ebbe già a dire, è il miglior ‘ristoro’ per ogni cittadino. Riaprire dunque, anche se  non ancora in completa sicurezza, val dunque la pena del rischio. I dati sono in via di miglioramento e tutto lascia sperare che lo saranno sempre più. Ci si affida alla campagna vaccinale che, dopo vari intoppi dovuti in parte alla logistica da mettere ancora a punto e agli stop di alcuni vaccini per validarne certi  effetti collaterali indesiderati, dovrebbe entrare nel pieno della somministrazione. Sempre che gli approvvigionamenti non incontrino altri ritardi.

Ci si affida pure al buonsenso degli italiani che, si spera, abbiano imparato la lezione. Perché a tornare indietro è davvero un attimo, Sardegna docet.

Che sia ‘rischio ragionato’, o ‘rischio calcolato’, come è stato erroneamente ribattezzato dai social, poco importa: lunedi 26 aprile l’Italia, ad eccezione di alcune regioni, si colora nuovamente di giallo e col giallo si riaprono le saracinesche delle attività commerciali.

Non tutte insieme ma scaglionate in varie date. Vediamo come:

 DAL 26 APRILE 2021

  • Scuole: in zona gialla ed arancione lezioni in presenza al 100% fino alla quinta superiore; in zona rossa lezioni in presenza al 100% fino alla terza media e al 50% dalla prima alla quinta superiore.
  • Ristoranti e pizzerie potranno riaprire sia a pranzo che a cena esclusivamente con tavoli all’aperto;
  • Teatri e cinema: saranno consentiti gli eventi all’aperto; per quelli al chiuso con i limiti di capienza fissati per le sale dai protocolli anti-contagio;
  • Spostamenti fra regioni: se gialle liberamente consentiti; sedi colori diversi  consentiti se in possesso di un pass che attesti una delle seguenti condizioni: avvenuta vaccinazione; esecuzione di un test Covid negativo in un arco temporale da definire; avvenuta guarigione dal Covid;

DAL 15 MAGGIO 2021

  • Stabilimenti balneari e piscine all’aperto:  potranno riaprire con una serie di nuove linee guida.

 DAL 1° GIUGNO 2021

  • Palestre: previste nuove linee guida per la loro riapertura
  • Ristoranti e pizzerie:  via libera ai ristoranti con tavoli al chiuso solo a pranzo;

RIAPERTURE DAL 1° LUGLIO 2021

  • Fiere e congressi, stabilimenti termali e parchi tematici:  previste nuove linee guida per la loro riapertura

COPRIFUOCO:  

confermato l’orario dalle 22 alle 5 del mattino in tutta Italia. Così come non vanno abbandonate le tre misure di prevenzione date dal lavaggio delle mani, dall’uso della mascherina e dal distanziamento tra persone di almeno un metro.

 

Con i dati attuali, questo è quanto è stato stabilito da un Consiglio dei Ministri piuttosto concitato per via delle diverse anime che lo compongono. Da una parte il pressing degli aperturisti del tutto e subito, dall’altra i rigoristi dell’apertura solo se fatta in sicurezza e dopo un’avanzata campagna vaccinale.

Molte le criticità rimaste tali. Una per tutta, la scuola. Per la quale poco o niente è stato fatto per contenere i rischi del prima e dopo l’ingresso scolastico. Così come resta invariato il numero elevato di alunni/studenti per classe nonostante sia unanimemente riconosciuto come un obbrobrio da risolvere. E ancora una volta nulla è stato fatto  per mettere in sicurezza i tanti, troppi edifici scolastici, molti dei quali fatiscenti e senza neppure il certificato di abitabilità.  E questo benché la scuola sia considerata l’architrave della società, come ha ricordato il ministro Speranza durante la conferenza stampa.

Decisamente contro le riaperture dal 26 in poi Massimo Galli, l’infettivologo che bolla come ‘calcolato male’ il rischio che si è assunto il governo: ‘Ripartenza precoce, senza i vaccini i contagi risaliranno’, ammonisce durante le interviste, augurandosi certo di avere torto per il bene di tutti.

Il 26 aprile si avvicina a grandi passi. Le saracinesche delle attività commerciali aspettano solo di essere  tirate su e noi finalmente di ricominciare, poco alla volta, a riappropriarci delle nostre vite.

In attesa che i dati di monitoraggio siano a nostro favore, non ci resta che affidarci alla sorte augurandoci  ‘che Dio ce la mandi buona’!

Chiara Farigu 

venerdì 16 aprile 2021

Ma quanto dobbiamo al gatto Zorba, noi maestre?

 

Ricordando Luis Sepulveda, morto il 16 aprile di un anno fa…

Avevamo un progetto ambizioso quell’anno a scuola. L’amicizia, l’integrazione la condivisione. Coi bambini non basta parlare. Con loro occorre fare. Sperimentare. Occorre osare.

La ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’ aveva gli ingredienti giusti. Quelli che lasciano il segno.

Portammo i bambini al cinema a vedere il cartone animato, tratto dall’omonimo libro di Luis Sepulveda.

Il gatto Zorba divenne subito il nostro eroe. L’amico coraggioso a cui far riferimento. L’amico prodigo di consigli e di premure. L’amico che ascolta il cuore e non vede differenze di genere di colore o di estrazione sociale né tantomeno di credo religioso.

 L’amico che insegna a osare per conquistare l’autonomia. Spiccare il volo verso la libertà.

Quanto dobbiamo a Zorba, noi maestre!

E quanto dobbiamo a Sepulveda, lo scrittore cileno, anch’egli vittima illustre del covid-19. Se n’è andato il 16 aprile di un anno fa, all’età di 71 anni, nell’ospedale di Oviedo, in Spagna, dov’era ricoverato dalla fine di febbraio.

Ci ha insegnato a osare. Col pensiero, con le parole, con le azioni. I suoi libri ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’, ‘Storie ribelli’, ‘Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza’, solo per citarne alcuni, hanno contribuito e continueranno a indicare la strada della libertà e della giustizia.

Così come a credere nei sogni perché ‘Solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori, e se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo’.  Frase quest’ultima che da sola racchiude il suo pensiero. Frase che amava ripetere ai giovani di tutto il mondo per invitarli a credere nelle loro idee e a combattere per realizzarle. A osare, sempre e comunque. Per essere liberi e felici.

Chiara Farigu

*Immagine web

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