il blog di chiarafarigu

martedì 5 ottobre 2021

5 ottobre, giornata mondiale degli insegnanti: 24 ore per riflettere sulla professione più nobile e difficile che ci sia

 Anche quest’anno Google  dedica il suo ‘doodle’ alla giornata mondiale degli insegnanti. Uno ‘scarabocchio’ con uno degli ‘attrezzi’ del mestiere per eccellenza: il libro. Una splendida ape regina intenta a sfogliare pagine illustrate dispensatrici di saperi ad una scolaresca vogliosa di apprendere.

Più che un messaggio, un augurio.

Perché dopo quasi due anni trascorsi incollati ad uno schermo, il ritorno al libro, e soprattutto in presenza, non è poi così scontato.

Istituita nel 1994 dall’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di conoscenza e patrimonio culturale, la ricorrenza  vuole essere un invito alla riflessione sull’insegnamento, la professione più bella e nobile che ci sia.  Sulle sfide quotidiane e sulle difficoltà, le tante ancora che per diverse ragioni non si riescono o forse non si vogliono abbattere.

Soprattutto ora. Dopo la difficile e delicata ripartenza dopo quasi due anni di chiusura per pandemia da coronavirus. Mai come adesso c’è bisogno di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà che gli insegnanti di tutto il mondo hanno dovuto e dovranno affrontare ancora affinché la didattica sia garantita definitivamente  in presenza e non si torni allo spauracchio dell’insegnamento da remoto. Con tutti i pochi pro e tanti contro che abbiamo avuto modo di verificare.

Mai come adesso si avverte la necessità di ristabilire quell’alleanza tra scuola e famiglie. E tra scuola e istituzioni.

Troppo spesso gli insegnanti vengono lasciati soli, ingabbiati nelle strettoie burocratico/amministrative che rubano spazi e tempi alle discipline che sono chiamati a condividere coi loro studenti. In aule spesso fatiscenti e a rischio crolli, con carenza di attrezzature e materiali didattici. Con retribuzioni da terzo mondo e, in barba al futuro che rappresentano, obbligati a stare in cattedra oltre ogni limite.

I più vecchi d’Europa, quelli italiani. E i meno remunerati. Maglia nera da anni il nostro Paese, a ricordarcelo, qualora ce ne fosse bisogno, gli istituti di statistica nei loro report annuali.

Ma sempre prima la scuola, insieme alla sanità, nella hit per le sforbiciate previste dalle revisioni di spesa del bilancio pubblico. Scuola e investimenti. Un ossimoro da sempre. L’incubo di ogni governo. Che promette ma poi non mantiene.

E se mantiene, mai nella giusta direzione.

Basta vedere quanto è stato fatto, o meglio non fatto, in questi due anni di pandemia. Tanti, troppi i bla bla bla, pochissimi i fatti.  Anche il  nuovo anno scolastico è iniziato coi vecchi stramaledetti  problemi di sempre.

Perché la scuola, e tanto meno il benessere degli insegnanti, non è mai la priorità. Se non a parole,  in campagna elettorale o nelle promesse dei governi quando si insediano. Ma puntualmente, il nulla di fatto.

Per poi scoprirne nuovamente il valore, l’essenza,  come è successo nel periodo dell’emergenza pandemica. Quando ad occuparsi di alunni e studenti sono state chiamate in causa le famiglie. E’ stato allora, dopo decenni di assoluta indifferenza che si è riscoperto il valore della scuola. Inteso come luogo di formazione e ancor più di socializzazione.

Punto di riferimento indispensabile per la società intera.

Sono stati mesi difficili. Nei quali i docenti si sono dovuti inventare una nuova modalità di insegnamento servendosi della tecnologia per non lasciare indietro e abbandonati a se stessi alunni e studenti di ogni ordine e grado. Non dimentichiamo che per molti di loro, quando i bollettini medici contavano giornalmente migliaia di morti, l’unica voce amica arrivava da quello schermo.

Ma ora, fortunatamente, il peggio è passato e si guarda al presente. Con le tante, troppe difficoltà ancora presenti e da risolvere. Come la presenza in cattedra degli insegnanti.

C’è carenza di insegnanti. In Italia e nel mondo. Soprattutto nelle zone periferiche, in quelle disagiate e nelle aree rurali o remote. E nelle zone di guerra. Secondo le Nazioni Unite sarebbe necessario reperire circa 70 milioni di nuovi insegnanti entro il 2030 per ‘colmare il bisogno di educatori e garantire a tutti l’accesso alla conoscenza, uno dei diritti fondamentali dell’uomo’. Nel mondo, stima l’Onu sono oltre 264 milioni i bambini e i ragazzi non scolarizzati, soprattutto in Africa.

E’ emergenza. Già da adesso. E lo sarà sempre più, se non si corre a ripari.

Abbiamo ventiquattro ore per riflettere. Ma soprattutto per fare.

Insegnanti al centro della ripresa della formazione ‘, è questo il tema che l’Unesco dedica alla giornata di oggi, 5 ottobre. Per realizzarlo c’è bisogno di tutti. Nessuno escluso

Chiara Farigu


domenica 3 ottobre 2021

Iannacone ripropone la storia dello scultore non vedente. Ed è di nuovo magia

 In certi programmi televisivi spesso ci si imbatte per caso. Ma quando si viene ‘rapiti’ sceglierli diviene poi un obbligo. Oltre che un piacere.

‘Cosa ci faccio qui’, condotto e diretto da un ineguagliabile Domenico Iannacone, è uno di questi.
Il giornalista salentino è un vero Maestro del racconto. Nessuno come lui riesce a scavare nei sentimenti umani facendo riemergere ricordi sensazioni e stati d’animo  dei  protagonisti delle sue storie. Persone che spesso vivono ai margini ma non per questo sono meno speciali.  Anzi. Com’è appunto Felice.
La sua storia molti telespettatori la conoscono già. Iannacone la raccontò nella passata edizione. Riascoltarla è come per bambino farsi raccontare nuovamente una fiaba. Con gli stessi toni, le stesse pause, le stesse parole, le stesse immagini.
E sin dalle prime si riaccende la magia.
Lui è Felice Tagliaferri e il bambino che gli sta vicino è suo figlio Alberto. La loro storia sembra uscita da un libro di favole che catturano grandi e piccoli sino alla parola fine.   Gli ingredienti ci sono tutti: l’eroe buono, le traversie della vita,  il bene che trionfa sul male.

E’ anche una storia di sofferenza e di riscatto, di buio profondo e di luce intensa.

 

‘Cosa vorresti come regalo di Natale’, chiede il giornalista al bambino che avrà non più di 10 anni e che senza esitazione alcuna risponde: ‘Che il mio papà possa vedere anche per pochi minuti’. Il suo papà, Felice,  è un uomo davvero fuori dal comune, un artista sorprendente, di quelli che lasciano senza parole.

A 14 anni, colpito da un’atrofia del nervo ottico, malattia che non perdona,  i suoi occhi, nel giro di un anno,  si spengono completamente facendo sprofondare nel buio più nero  sogni e  aspettative di un adolescente che si stava affacciando alla vita.

Chiunque al suo posto avrebbe cominciato a maledire il destino che senza preavviso  lo toglieva dall’esercito dei cosiddetti ‘normali’ per arruolarlo suo malgrado in quello dei ‘disabili’. Non lui, non Vincenzo da sempre sostenitore che ‘la vera disabilità è negli occhi di chi guarda, di chi non comprende che dalle diversità possiamo solo imparare’.

E Vincenzo dalla sua diversità  ha imparato alla grande.

Galeotto fu il suo incontro con il marmo. Al quale dare la forma dei suoi sogni. Rendendo così ogni opera originale e personale.  Le sue creazioni sono infatti sculture non viste, che prima nascono nella sua mente e poi prendono forma attraverso l’uso sapiente delle mani, guidate da incredibili capacità tattili.

Vista e tatto si fondono all’unisono in quelle mani che non sono altro che  mero strumento per  plasmare blocchi di marmo per poi divenire opere uniche nel loro genere.

Veri capolavori capaci di regalare grandi emozioni in chi ha la fortuna di imbattersi in esse.

Come il Cristo ri-velato che Felice ha realizzato dopo aver ‘visto’ quello della Cappella di  Sansevero di Napoli.

Non potendolo toccare, per rendersi conto della maestosità dell’opera, Felice se l’è fatta descrivere, centimetro per centimetro. Descrizione durata oltre tre giorni, racconta Tagliaferri, invitando Iannacone a toccare diversi dettagli del ‘suo’ Cristo come l’ombelico, la coscia o le costole che sono la riproduzione delle sue:  ‘ho usato me stesso per avere un modello sempre disponibile’ ha rivelato prima di sdraiarsi sull’opera. per dar prova alle sue parole.

‘Dal buio possono nascere grandi opere, quando do forma alle cose non so dove finisce la materia e inizia il mio corpo’ , racconta lo scultore, invitando Iannacone a farsi bendare per qualche minuto per immergersi a sua volta nel buio e ‘vedere’ attraverso il tatto il mondo circostante.

Con ‘un nuovo sguardo’. Fatto di sensazioni, emozioni, interiorizzazioni di descrizioni altrui fatte proprie.

Oggi Felice è Scultore, Direttore della “Chiesa dell’Arte” e insegnante d’arte.

Un artista a tutto tondo che si nutre di sogni che poi regala a chi è ancora capace di sognare.

Accanto a lui Alberto.  Gli occhi di suo figlio, una finestra sul mondo. Per continuare a sognare.

 Chiara Farigu 

*Immagine profilo Facebook

mercoledì 29 settembre 2021

Morti sul lavoro: una strage senza fine

 Travolti dagli stessi tir che guidano, risucchiati o decapitati dai macchinari che utilizzano, precipitati dalle impalcature che montano, avvelenati da acidi e polveri che respirano: queste e molte altre le cause di quelle che le cronache chiama ‘morti bianche’.

Una strage senza fine.

Solo ieri i morti sul lavoro sono stati sei: due nel Milanese, una nell’hinterland di Torino, una a Capaci, in provincia di Palermo,  un’altra nel Padovano, la sesta nel Pisano. Stamattina un’altra vittima. Un operaio è stato investito da un mezzo pesante tra Poggio Imperiale e San Severo, nel Foggiano, mentre lavorava sull ‘autostrada A14, durante  la fase di installazione di un cantiere.

Un bilancio terrificante:  nei primi 7 mesi del 2021 i morti sono 677 (fonte: il Manifesto). Un trend in continuo aumento, oltre 15.000 le vittime negli ultimi dieci anni.

E quel che è peggio è che si tratta di disgrazie prevedibili che si sarebbero potute evitare. La maggioranza degli infortuni, sostengono i sindacati di settore, sarebbe infatti causata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza, dovuta, come raccontano le cronache all’indomani di ogni tragedia, dalla rincorsa da parte delle imprese al risparmio e all’abbattimento dei costi del lavoro.

Imprese che spesso e volentieri si avvalgono di sub-appalti e di personale precario, retribuito il più delle volte in nero, privato di ogni norma e strumento di sicurezza.

Servono leggi severe, maggiori controlli, protocolli di sicurezza che vanno applicati e non solo propagandati.  Serve responsabilità, senso del dovere e rispetto delle regole: quante volte abbiamo sentito queste parole dopo ogni disgrazia?

Dinanzi a queste cifre non basta indignarsi. Le ‘morti bianche’, insieme ai femminicidi, costituiscono una priorità di interventi che la politica non può più rimandare. A cominciare dalla prevenzione, dalla formazione e dalla garanzia di tutele fisiche e contrattuali.

Il lavoro deve garantire opportunità e migliorare la vita. Deve assicurare un presente e un futuro.

Non può e non deve darci morti da piangere un giorno sì e l’altro pure. Non più.

Chiara Farigu

lunedì 27 settembre 2021

150 anni fa nasceva Grazia Deledda. Unica donna italiana ad aver vinto il Nobel per la Letteratura

 Centocinquanta anni fa, esattamente il 27 settembre del 1871, nasceva, a Nuoro, Grazia Deledda, “Una donna di talento, che ha dato lustro all’Italia”, ha scritto il Capo dello Stato in una nota dedicata all’autrice per la ricorrenza.

Numerose, in tutta Italia, le celebrazioni per ricordare la scrittrice che ha indubbiamente lasciato il segno nel mondo della letteratura.

Autodidatta, esordisce su un periodico di moda. Influenzata sia da Verga che da D’Annunzio, in tutta la letteratura italiana la scrittrice sarda fa storia a sé, restando estranea a ogni corrente.

I suoi romanzi (Elias Portolu, Cenere, Marianna Sirca, La madre) sono tutti ambientati in Sardegna, regione che nelle sue pagine diventa un luogo mitico, barbarico e primitivo. Una terra ancestrale governata da leggi eterne e immutabili.

Nel 1913 pubblica Canne al vento, il suo capolavoro.

Nel 1926 vince il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”.

A tutt’oggi è l’unica donna italiana ad aver vinto un Nobel per la letteratura.

Questo il video del discorso tenuto a Stoccolma   https://www.youtube.com/watch?v=Y8XBNigpMss

Suoi questi due aforismi, tra i più celebri e ancora oggi di grande attualità:

1) “Tutti siamo impastati di bene e di male, ma quest’ ultimo bisogna vincerlo.” Analisi attenta e precisa dell’essenza umana ed una esortazione a sconfiggere il Male facendo prevalere le forze del Bene. Attualissimo per i nostri tempi in cui malaffare, corruzione, interesse personale e di casta sono all’ordine del giorno.

2) “Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?” Domanda che potrebbe sembrare retorica ma non lo è, poiché rispecchia una realtà sotto gli occhi di tutti. Basta guardare il fenomeno dei migranti, le cause che lo hanno provocato e il disinteresse col quale (non) si cerca di risolverlo.

Sono piccina piccina, sa, anche in confronto alle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali”, scriveva di se stessa.

Dieci anni dopo il suo Nobel, la dura e lunga lotta contro il timore al seno. Una lotta impari. L’unica che non sia riuscita a vincere.

A continuare a parlare, ancora oggi,  i suoi romanzi. Storie intense e drammatiche attraverso le quali ha contribuito a rendere universali il dolore, il calore, i sentimenti dei personaggi tratti dalla sua terra. ‘Una eredità che rende ancor più ricco il patrimonio della letteratura italiana’, ha chiosato il presidente Mattarella.

 Chiara Farigu

Osservo con discrezione (e molta invidia) quell’amore appena sbocciato

 Il mondo è lontano in questo tratto di spiaggia. Possiamo contarci: un ragazzo che gioca col suo cane, un pescatore in attesa che almeno un pesce abbocchi ed il mio animo tormentato in cerca di pace.

Poi li intravedo. Avranno sì o no 16/17 anni.
Lui accarezza i capelli di lei, lei il ciuffo di lui.

Un bacio. Due baci. Tre baci. Poi perdo il conto.

Li osservo con discrezione. Ma anche con molta invidia.

Invidio quel sentimento fresco, quelle promesse scambiate che quasi certamente non verranno mantenute ma che al momento li fa camminare tre metri sopra il cielo.

Invidio la loro età ed il futuro che hanno davanti. Pur sapendo che non sarà sempre rose e fiori. Anzi!

Invidio la leggerezza dei loro pensieri, il loro mondo fatto di momenti rubati in quella terrazza dove fino a qualche settimana fa si accalcavano i bagnanti.

Il mondo coi suoi affanni è lontano anni luce da quella terrazza.

Gli unici occhi indiscreti, i miei.
 
C'è pace intorno.
E silenzio.
A parlare, i loro abbracci

Chiara Farigu
 
*Immagine Chiara Farigu
 

mercoledì 22 settembre 2021

Morti sul lavoro: una strage senza fine

 Travolti dagli stessi tir che guidano, risucchiati o decapitati dai macchinari che utilizzano, precipitati dalle impalcature che montano, avvelenati da acidi e polveri che respirano: queste e molte altre le cause di quelle che le cronache chiama ‘morti bianche’.

Una strage senza fine.

Solo ieri i morti sul lavoro sono stati sei: due nel Milanese, una nell’hinterland di Torino, una a Capaci, in provincia di Palermo,  un’altra nel Padovano, la sesta nel Pisano. Stamattina un’altra vittima. Un operaio è stato investito da un mezzo pesante tra Poggio Imperiale e San Severo, nel Foggiano, mentre lavorava sull ‘autostrada A14, durante  la fase di installazione di un cantiere.

Un bilancio terrificante:  nei primi 7 mesi del 2021 i morti sono 677 (fonte: il Manifesto). Un trend in continuo aumento, oltre 15.000 le vittime negli ultimi dieci anni.

E quel che è peggio è che si tratta di disgrazie prevedibili che si sarebbero potute evitare. La maggioranza degli infortuni, sostengono i sindacati di settore, sarebbe infatti causata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza, dovuta, come raccontano le cronache all’indomani di ogni tragedia, dalla rincorsa da parte delle imprese al risparmio e all’abbattimento dei costi del lavoro.

Imprese che spesso e volentieri si avvalgono di sub-appalti e di personale precario, retribuito il più delle volte in nero, privato di ogni norma e strumento di sicurezza.

Servono leggi severe, maggiori controlli, protocolli di sicurezza che vanno applicati e non solo propagandati.  Serve responsabilità, senso del dovere e rispetto delle regole: quante volte abbiamo sentito queste parole dopo ogni disgrazia?

Dinanzi a queste cifre non basta indignarsi. Le ‘morti bianche’, insieme ai femminicidi, costituiscono una priorità di interventi che la politica non può più rimandare. A cominciare dalla prevenzione, dalla formazione e dalla garanzia di tutele fisiche e contrattuali.

Il lavoro deve garantire opportunità e migliorare la vita. Deve assicurare un presente e un futuro.

Non può e non deve darci morti da piangere un giorno sì e l’altro pure. Non più.

Chiara Farigu

Debutto fortunato per ‘I BASTARDI DI PIZZOFALCONE’. La terza serie

 Debutto fortunato per I BASTARDI DI PIZZOFALCONE, che ieri 20 settembre ha battuto la concorrenza col 21,8% di share, vale a dire con 4,5 milioni di telespettatori.

La fiction, alla terza stagione, non ha perso lo smalto delle due serie precedenti che anzi, con le intricate storie dei suoi personaggi, magistralmente descritti da Maurizio de Giovanni, continua ad affascinare e a coinvolgere i telespettatori.

A fare da sfondo alle vicende del commissario Lojacono e della squadra dei ‘bastardi fuori ma teneri dentro’, i colori i suoni e le meraviglie di una Napoli senza tempo. Con i problemi di sempre: malavita, corruzione, degrado sociale, e quel calore, quell’umanità che solo la città partenopea sa offrire. A piene mani, a chi è in grado di vedere al di là delle apparenze.

La serie, diretta da Monica Vullo, si compone di sei puntate, in onda ogni lunedi su Rai 1.

Protagonisti ancora una volta Alessandro Gassman affiancato da Carolina Crescentini, nei panni della pm Piras, e lo scalcagnato ‘commissariato’ di Pizzofalcone, la location napoletana scelta dall’autore dove ambientare e risolvere intricate vicende non sempre nel rispetto delle regole.

Sulla etimologia di Pizzofalcone si leggono diverse curiosità. La più accreditata risale al Duecento, quando la collina non faceva parte del tessuto urbano. Il re di Napoli Carlo I d’Angiò decise di praticare in questa zona la caccia al falcone, facendo costruire sulla collina una falconiera per la real caccia di falconi.

E’ però Carlo Celano,  storico napoletano, a svelare che il colle in realtà ‘è detto così per l’altezza che ha, essendo che ogni cosa alta a Napoli si diceva Falcone per l’alto volo che fa quest’uccello’.

Curiosità a parte,  Pizzofalcone,  è una collina  molto cara ai partenopei che la serie tv ha ulteriormente contribuito a rendere ancora più famosa e accattivante.

Chiara Farigu


lunedì 20 settembre 2021

Chi vive al mare non può sentirsi solo mai

 Sono sola oggi al mare. Eppure non mi sento sola. Lo sciabordio delle onde sbobina ricordi e immagini catturate durante le passeggiate nei lunghi pomeriggi estivi.

Risento gli echi dei bambini che si divertono a costruire castelli di sabbia e la musica degli stabilimenti lasciata andare a tutto volume.

Rivedo gli ambulanti fare la siesta nelle ore più calde e i grattachecche fischiare per annunciare il loro arrivo.

Sugli scogli, immancabili, i pescatori alle prese con le loro esche. Sulla battigia, giovani super tatuati e ragazze strizzate in bichini che non lasciano nulla all’immaginazione. Gli uni e le altre, in cerca di sguardi e di conferme sulla loro avvenenza, vanno su e giù con nonchalance.

Sono sola ma non mi sento sola.

Il salmastro, reso ancora più intenso dal vento, sprigiona profumi meravigliosi, la brezza marina scompiglia capelli e ricordi.

Sono frammenti di un’estate agli sgoccioli tornati a galla prepotenti per essere rivissuti con gli occhi socchiusi.
Due gabbiani beccano qualcosa nell’arenile poi spiccano nuovamente il volo.

Mi avvio in compagnia dei miei pensieri. E comprendo perché chi vive al mare non può sentirsi solo.

Chiara Farigu

#Viverealmare

*Immagine  Chiara Farigu

lunedì 6 settembre 2021

Fabio #Aru: l’addio al ciclismo ma non alla bici

 Sapevamo del suo addio al professionismo. Lo aveva annunciato alla stampa qualche giorno prima del giro di Spagna: ‘La Vuelta sarà la mia ultima corsa. Ora è giunto il momento di dare la priorità ad altre cose. A cominciare dalla mia famiglia’.

Così è stato. Da oggi Fabio Aru, il #cavalieredeiquattromori, come veniva affettuosamente chiamato dai suoi tifosi, è ufficialmente un ex ciclista.

Un addio sofferto ma fortemente voluto.  Che giunge dopo quattro anni di stallo dovuti ad una condizione fisica non proprio ottimale.

Nel 2019 si sottopone ad un delicato intervento di angioplastica all’arteria iliaca della gamba sinistra per risolvere un’ostruzione che impediva un adeguato afflusso sanguigno durante il massimo sforzo. Ostruzione che comporta un calo di prestazione proprio quando era più necessaria.

L’intervento ha lasciato non pochi strascichi.

A cominciare da una lunga convalescenza e parecchi mesi di sospensione dalle gare. Riprese solo molto tempo dopo grazie ad estenuanti allenamenti e una granitica determinazione che non è venuta mai meno.

Dopo sedici anni dedicati al ciclismo e a soli 31 anni il corridore sardo dice addio al professionismo ma non alla sua amata due ruote. Passione che ha maturato molto presto, a soli tre anni, come mi raccontò sua nonna Lina durante una nostra chiacchierata, quando Fabio faceva sognare l’intera #Sardegna con le sue epiche imprese.

A tre anni ebbe in dono dai nonni un triciclo. Fu amore a prima vista. Mai più sostituito da nessun altro. Con qualche variante ma sempre una due ruote. E in continua evoluzione: dal triciclo con rotelle alla prima bici, dalla mountain bike alla bici da corsa. Una passione, un amore incondizionato.  Perseguito, rincorso voluto. Con ogni mezzo e a costo di qualsiasi sacrificio. Un amore ricambiato.


Che lo ha visto trionfare prima da dilettante poi da professionista.

La  vittoria più importante la Vuelta nel 2015: ‘E’ bello chiudere la mia carriera nel paese che mi ha regalato la mia gioia più grande’- ha twittato Fabio- da quel 5 maggio 2015 sono stato immerso in un sogno e ho viaggiato a 1000 all’ora; non rimpiango niente, anzi rifarei tutto, e con l’esperienza che ho adesso lo farei ancora meglio’.

Al suo attivo una tappa al Tour de France, tre al Giro d’Italia, due alla Vuelta, il titolo nazionale nel 2017, altri due podi al Giro d’Italia. E’ stato il primo sardo, e quarto italiano assoluto dopo Felice Gimondi, Francesco Moser e Vincenzo Nibali, ad aver indossato la maglia rosa, la gialla del Tour e la rossa della Vuelta.

Una carriera breve ma folgorante soprattutto al suo avvio, poi i suoi problemi fisici, il delicato intervento e il lento declino sino all’addio al professionismo.

Una carriera che è stato un vanto e uno scatto d’orgoglio per i villacidresi e i sardi tutti che hanno visto in lui una dimostrazione di forza, determinazione e spirito di rivalsa nei confronti di una terra spesso bistrattata per quanto unica e bellissima. Aru è andato oltre lo sport: ha catapultato la Sardegna in un palcoscenico di assoluta caratura  dove nessuno era mai arrivato’scrive un cronista de l’Unione Sarda.

‘Mi fa strano sapere che non gareggerà più, è una sensazione difficile da spiegare’, commenta il fratello Matteo e suo primo grande tifoso.

‘Ha fatto tanto e ha dato tanto. E’ stato un esempio, la dimostrazione che nonostante le enormi difficoltà con cui si trovano a fare i conti i ragazzi che vivono in un’Isola, è possibile fare grandi cose. Spero rimanga nell’ambiente del ciclismo e trasmetta la sua esperienza ai più giovani’, commenta così l’addio alle gare un altro ex ciclista sardo, Pinotto Picciau.

Di certo si sa solo che Fabio ora sente il bisogno impellente di vivere questo ritiro nel calore della sua famiglia. Per ritrovarsi come uomo come marito e come padre.

Il futuro è una pagina bianca, tutta da scrivere.

Dove la sua amata due ruote occuperà sempre un posto speciale.

Buon vento, #Fabio

Chiara Farigu

#cavalieredeiquattromori  #Aru  #Sardegna  #Fabio

*Immagine Ansa

venerdì 6 agosto 2021

#Tokio2020. Il 10° oro profuma di Sardegna: Filippo #Tortu trascina l’Italia nella storica staffetta 4×100

 Ci ha impiegato qualche frazione di secondo per capire di aver tagliato il traguardo per primo. E quando ha realizzato che il suo sprint finale, nella staffetta 4×100, valeva la 10^ medaglia d’oro per l’Italia, Filippo #Tortu è scoppiato in lacrime.

Un pianto liberatorio che lo ha ripagato della delusione di qualche giorno prima quando è stato eliminato nella semifinale dei 100 metri, con i 200, la sua  specialità. Quella che lo aveva catapultato ufficialmente nella leggenda dell’atletica quando al meeting di Madrid del 2018 riuscì, primo tra gli italiani e terzo atleta bianco di sempre a correre i 100 metri sotto i 10 secondi (9”99).

La sua finale l’ha vinta oggi Filippo, trascinando  i suoi compagni di squadra,  Lorenzo Patta (il più giovane dei 4, sardo doc di Oristano), Marcell Jacobs ed Eseosa Desalu in una staffetta che resterà nella storia, chiudendo in 37”50, davanti alla Gran Bretagna, battuta per un solo secondo, e al Canada.

Pippo, come viene affettuosamente chiamato in famiglia è milanese di nascita ma fiero delle sue origini sarde che ha ereditato dal babbo Salvino, originario di Tempio Pausania, a sua volta velocista di un certo prestigio, che gli ha trasmesso l’amore per l’atletica e la fierezza di appartenere alla ‘madre-terra’.

Mi sento un sardo a tutti gli effetti”, ebbe a dire Pippo durante un’intervista. Un sardo tiene sempre alla propria terra, sempre e ovunque, io non mi sono mai sentito lombardo, con grande dispiacere di mia madre che prima o poi dovrà farsene una ragione”.

Già, la mamma. Incontrata da Salvino a Roma, ai tempi dell’Università. Un amore nato tra i libri sfociato poi nel matrimonio e la decisione di mettere casa a Carate Brianza, alle porte di Milano. Nella terrazza, in vaso, alcune piante autoctone sarde, per respirare i profumi dell’isola durante tutto l’anno.

I quattro mori nel Dna, come l’atletica che Filippo ha iniziato a praticare a 8 anni, nella Polisportiva Besanese. Nel 2010 si aggiudica il titolo di ragazzo più veloce di Milano, frequentava le scuole medie, ma quella vittoria gli indica la strada: l’atletica sarà la sua ragione di vita.

Allenato da papà Salvino, gli anni a venire saranno pregni di soddisfazioni per il giovane campione: vittorie su vittorie ma anche qualche inciampo. Traumatico quello delle Olimpiadi giovanili, durante le batterie dei 200 metri, quando cadde sulla linea d’arrivo, rompendosi entrambe le braccia e non potendo disputare la finale.

Un infortunio che avrebbe messo ko qualsiasi sportivo. Non lui. Non Pippo Tortu che aveva un sogno da realizzare: battere il record della Freccia del Sud, il mitico Mennea.

Impresa poi realizzata alla grande, con babbo Salvino al suo fianco, sempre.

Oggi la gioia più grande: l’oro. Con i suoi compagni di squadra. ‘Quando ho letto Italia sul tabellone non ci ho capito più niente’, ha commentato a caldo con gli occhi ancora lucidi di pianto e le mani tra i capelli.

Per l’Italia è il 10° oro. E cinque arrivano dall’atletica, la regina delle discipline olimpiche. 38 le medaglie complessive vinte in questa #Olimpiade che sembrava non volesse decollare per il nostro Paese.

‘Non svegliateci mai più, non è possibile: siamo in cima al mondo’, commenta sul suo profilo facebook…

E non è ancora finita. Ad attenderlo ora la gara dei 200 metri. Chissà…

#Tortu  #Olimpiade

Chiara Farigu

*Immagini tratte dal web

La nonna paterna? Una nonna a metà (con poche eccezioni)

  Essere nonne è un dono meraviglioso che la vita riserva a chi ha avuto la gioia di essere prima mamma. E’ come diventare madri una seconda...