il blog di chiarafarigu

domenica 7 agosto 2022

Quando le vacanze sapevano di cotoletta panata

 Quando ero piccola io le vacanze erano solo quelle relative alla chiusura della scuola. Mio padre, uomo dai mille mestieri per mandare avanti la famiglia, non conosceva la parola ‘ferie’.

Non ne aveva diritto, almeno nel senso che le viene attribuito dalla costituzione e dai vari statuti dei lavoratori.

Tuttavia ne percepiva l’importanza, almeno per noi figli. Così, una o due volte la settimana si partiva per il mare. Un lusso a quei tempi, per chi viveva nei paesi dell’interno di un’isola come la mia. Mia madre di buon mattino cucinava le fettine panate da consumare in spiaggia e gli immancabili ‘mallereddus alla campidanese’ perché un piatto di pasta non doveva mancare mai. Tantomeno al mare, dove il cambio d’aria, stimolava l’appetito.

Acqua, vino e frutta completavano il menù della gita. Poi partenza, destinazione Cagliari, spiaggia del Giorgino, meravigliosa a quei tempi. Sabbia bianchissima, acqua cristallina e macchia mediterranea tutto intorno a fare da cornice.

Mio padre mia madre e mio fratello più piccolo in vespa, la macchina era appannaggio dei ricchi e noi non lo eravamo. Io e mio fratello più grande in pullman (l’autista era un amico di famiglia) sapeva dove farci scendere. La fermata era segnalata da un cartello che pubblicizzava la nota marca di un lanificio di quegli anni, fine anni ’50 primi anni ’60.

Da quel momento in poi cominciava la libertà. Di correre, ridere, giocare spruzzarci l’acqua l’un l’altro. Per i miei genitori vederci felici era la gioia più grande. Loro cercavano riparo sotto l’ombra di un pino marittimo ricurvo dallo sferzare del maestrale, tipico del nostro paesaggio. L’ombrellone sarebbe arrivato anni dopo. Allora ci si arrangiava con quel che si aveva, cioè poco. Ma a noi bastava. Perché sapevamo di essere dei privilegiati rispetto a nostri vicini di casa che osservano con non poca invidia le nostre escursioni.

Per merenda si mangiavano gli avanzi del pranzo, quelle fettine surriscaldate dal sole ci sembravano ancora più appetitose di quelle consumate a pranzo. La pelle arsa dal sole che picchiava senza pietà era lo scotto da pagare per quei momenti di libertà. Indimenticabili. Unici. Cosi diversi dalle vacanze odierne. Dove si ha di tutto e di più e chissà perché si è sempre alla ricerca di qualcosa che non c’è. Col broncio sempre stampato e con lo stress a mille che neanche l’aria di mare riesce a lenire.

Chiara Farigu 

*Immagine web

venerdì 5 agosto 2022

5 agosto 1981: l’Italia dice addio al matrimonio riparatore (e al delitto d’onore)

 Accadeva oggi: il 5 agosto 1981, l’Italia, con la legge 442 metteva fine ad una pratica che definire ‘medievale’ è un puro eufemismo: le nozze riparatrici.

Una modalità che consentiva ad un uomo, dopo aver violentato una donna, nubile e illibata, di ‘riparare’ al malfatto sposandola. Senza poter avanzare alcuna pretesa in beni o averi come dote per la sposa.

Col matrimonio veniva meno ogni effetto penale e sociale, la sua colpa estinta.  

Per la donna, ‘disonorata, agli occhi della famiglia e della società, accettare quelle nozze era in pratica un obbligo al quale non era neanche lontanamente immaginabile potersi sottrarre.

Sino a quindici anni prima quando una diciassettenne di Alcamo per la prima volta disse NO al matrimonio riparatore.

Un no forte e chiaro che contribuì a cambiare per sempre il volto di un’Italia piuttosto retrograda in fatto di diritti umani.

Quel NO lo gridò all’Italia intera Franca Viola, divenendo, suo malgrado, il simbolo dell’emancipazione delle donne italiane. ‘Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce’, motivò così quel rifiuto durante il processo, supportata in questa decisione da tutta la sua famiglia.

Lei quella violenza la subì per lunghi otto giorni. Venne rapita, violentata, malmenata e lasciata a digiuno in un casolare dal suo ex fidanzato, allontanato dai genitori di Franca perché vicino ad una famiglia mafiosa.

Lui, dopo il fattaccio propose la ’paciata’, il matrimonio riparatore e la fine delle ostilità.

I genitori finsero di accettare e all’incontro stabilito si presentarono con la polizia che arrestò Filippo Melodia e i suoi complici.

Per Franca fu la fine di un incubo e l’inizio di una nuova vita.

‘Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé’, ha più volte dichiarato Franca Viola.  Quasi a voler minimizzare quell’atto che fece da apripista a tanti dibattiti che quindici anni dopo consentiranno al legislatore di legiferare in merito cancellando, con un colpo di spugna, ben due norme del codice penale: il matrimonio riparatore e il delitto d’onore.

Una sorta di attenuante, quest’ultimo,  per l’uomo che commette un delitto in quanto ‘offeso nell’onore’ dalla propria donna o da una donna della sua famiglia alle prese con una relazione carnale illegittima.

Occorrerà aspettare sino al 1996 per veder riconosciuta, con una nuova legge, la #violenzasessuale come reato non più contro la morale ma contro la persona che la subisce.

Tanta strada è stata fatta da allora. Ma tanta altra occorrerà percorrerne per  cambiare la concezione della donna, vista ancora oggi come ‘proprietà’ dell’uomo. I tanti, troppi femminicidi ne sono una drammatica conferma.

Tanta strada si dovrà ancora percorrere  per raggiungere quella parità di diritti, nel lavoro, nella vita familiare e privata per fare della nostra una società civile e moderna.

Occorrono nuove leggi e nuove prospettive.

Cominciando da una vera rivoluzione culturale e sociale senza le quali qualunque normativa messa in atto rischia di restare un mero intento, un’aspirazione e mai un cammino di vero cambiamento.

Chiara Farigu

*Immagine Hermesmagazine

domenica 31 luglio 2022

E anche oggi piove sole (cit)…

 E anche oggi piove sole (cit)…

Mi sembra di sentirla mia madre quando, sfinita dalla canicola estiva, cercava refrigerio con quanto le capitava a tiro. Che fosse un cartoncino usato a mo’ di ventaglio, il grembiule tirato su e giù per i lembi, l’acqua del rubinetto per inumidire fronte e nuca.

Se poi alle temperature già di per sé roventi s’aggiungeva su bent’e sobi’, il caldo e umido scirocco, non c’era rimedio alcuno per poterla sfangare.

Ed ecco immancabile quel detto ‘e anche oggi piove sole’ che nessun meteorologo moderno saprebbe spiegare meglio.

Era esasperazione e sopportazione. Ma anche una sorta di litania da ripetere tra vicini di casa o tra parenti in risposta al ‘come stai’, ‘tutto bene’, ci sono novità’ che non esige necessariamente delle risposte in quanto puri e semplici convenevoli tra conoscenti.

A quelle parole seguivano immancabili scuotimenti di testa, braccia rivolte al cielo, mani in cerca dei fazzoletti di lino per asciugare guance intrise di sudore. Sugli occhi un unico desiderio: su ‘bentu estu’. Il maestrale. Coi suoi spifferi freschi e frizzantini, a volte dispettosi ma non per questo meno graditi, per riportare un po’ di frescura ed entusiasmo in quelle giornate soggiogate dall’inedia sino a tarda sera.

Eh, si, proprio come allora, anche oggi piove sole. In questa torrida estate senza fine.

Rovente e anomala. E non solo per il meteo. 

Ci è piovuta addosso tra capo e collo, per la prima volta nella storia repubblicana, una campagna elettorale nervosa e complicata in piena estate. Una campagna del tutti contro tutti per rinnovare il prossimo governo.  Una campagna dove a tener banco, più che i programmi sono le  scissioni, i tradimenti, le ammucchiate e i nuovi partitini che nascono come funghi.

Un clima politico impazzito. Quanto e forse più di quello meteorologico.

In attesa di una sana e vivifica rinfrescata, anche oggi piove sole.

Chiara farigu


giovedì 21 luglio 2022

Elezioni politiche: il 25 settembre si torna al voto

 Il 25 settembre gli italiani sono chiamati al voto per eleggere il nuovo governo: ‘ Il periodo che attraversiamo non consente pause negli interventi necessari a contrastare gli effetti dell’inflazione causata dalla crisi economica, dal costo dell’energia e dei prodotti alimentari’, ha dichiarato il Capo dello Stato poco prima che il Consiglio dei Ministri confermasse la data delle elezioni, durante la conferenza stampa subito dopo lo scioglimento delle Camere.

Mi auguro-ha poi aggiunto- che, se pur nell’intensa e a volte acuta dialettica della campagna elettorale, ci sia da parte di tutti un contributo costruttivo nell’interesse superiore dell’Italia’.

Una raccomandazione, oltre che un auspicio che ha rivolto a tutti i partiti, con voce piuttosto ferma, dopo quanto successo ieri al Senato che ha portato alle dimissioni del governo Draghi.

Ancora oggi gli analisti politici fanno a gara in tv e sulla carta stampata per analizzare i fatti e puntare il dito sui colpevoli del  ‘disastro certo’  al quale inevitabilmente andremo incontro senza più l’ombrello della rassicurante credibilità internazionale che globalmente viene riconosciuta all’ormai ex premier.

E’ questo il refrain più ripetuto letto e ascoltato.

Mentre i partiti politici sono già in campagna elettorale. Al momento tutti contro tutti ma in realtà in cerca di accordi più o meno segreti in vista di nuove alleanze così come impone la famigerata legge elettorale che non si è potuta o meglio mai voluta modificare.

Palpabile la delusione sul volto di Mattarella. Che mai avrebbe immaginato un epilogo così repentino quanto sconcertante, dopo la replica al Senato di Draghi, del governo voluto dallo stesso Presidente insediatosi 18 mesi fa dopo l’altrettante infausta fine del Conte II.

Tre governi, tutti miseramente fatti cadere, hanno caratterizzato questa anomala legislatura. Sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, vista l’assenza di prospettive per una nuova maggioranza, ha sottolineato il Capo dello Stato, è lo sbocco più naturale e anche l’ultimo atto soprattutto in momento complicato come questo.

Chiede responsabilità Mattarella, e un contributo costruttivo nell’interesse dell’Italia seppur consapevole che in  questa campagna elettorale nessun partito farà sconti all’altro e anche all’interno degli stessi dove già è cominciata la resa dei conti.

Basta ascoltare le loro interviste per comprendere quanto rovente, ancor più delle infuocate temperature di questa estate allo stremo, sarà il clima elettorale da oggi in poi sino al 25 settembre.

Chiara Farigu

martedì 19 luglio 2022

Trent’anni fa la strage di via D’Amelio. Sestu ricorda Emanuela Loi

 E’ il giorno del ricordo. Di uno dei fatti di cronaca più cruenti  della  storia della nostra Repubblica. Quella di via D’Amelio, una strage annunciata, a 57 giorni esatti dall’altra di Capaci  in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e i tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Il 19 luglio per me è tutti i giorni – sostiene Antonino Vullo, il sesto uomo della scorta del giudice e unico superstite – in via d’Amelio ci vado da solo anche durante l’anno. Ci vado perché ancora il ricordo di quel giorno rimbomba nella mia mente’. Si dice  stanco e amareggiato perché dopo trent’anni ancora non si è giunti ad una verità storica  poiché ‘c’è tanto ‘di occultato’ tra le istituzioni e le commemorazioni per stragi sono vissute più come un atto istituzionale dovuto che col cuore.

Lo stesso senso di amarezza si avverte nelle parole di Maria Claudia Loi, sorella di Emanuela, la poliziotta che in quell’attentato perse la vita.

‘E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei’.  Fu questa la prima reazione del Giudice Borsellino quando vide per la prima volta la giovanissima agente di polizia sarda in servizio come membro della sua scorta.

Era preoccupato per quelle cinque vite, il Giudice. Non tanto per la sua.

Sapeva di essere già condannato. Era solo una questione di tempo.

Nessuno dei due riuscì a proteggere l’altro.

Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, un’autobomba con circa 100 chili di tritolo esplode in via D’Amelio uccidendo lui, il Giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina,  Claudio Traina e la giovanissima Emanuela.  Una delle prime donne assegnate ad una scorta in Italia e la prima agente donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio.

Era il 19 luglio del 1992, esattamente 30 anni fa. Una ferita ancora aperta, tante le verità ancora sconosciute da portare a galla. Tanti i depistaggi e i silenzi di chi sa. La mafia, un cancro difficile da estirpare. ‘Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene’, era solito ribadire durante le interviste, ben consapevole che anche il silenzio, l’omertà, il girarsi dall’altra parte, uccide. Ancora più vigliaccamente.

Aveva appena 24 anni Emanuela. Sognava di diventare una maestra e di mettere su famiglia. Poi si fece tentare da un concorso per entrare in Polizia. Si preparò insieme a sua sorella ma solo lei superò tutte le prove col massimo dei voti. Aveva poco più di vent’anni quando dovette lasciare Sestu, cittadina a pochi chilometri da Cagliari dov’era nata e dove risiedeva con la famiglia, per trasferirsi a Trieste e accedere al corso di addestramento della durata di sei mesi.

Non pensava allora che quello sarebbe stato il primo (e l’ultimo)  distacco dai suoi cari e dal suo fidanzato.  Al termine del corso partì infatti per la nuova destinazione, Palermo.  Era anni difficili quelli, gli attentati mafiosi si susseguivano con una violenza inaudita, le forze dell’ordine e della magistratura erano le vittime sacrificali.

Alla famiglia Loi che viveva con crescente preoccupazione la lontananza e la divisa che Emanuela con orgoglio rappresentava, rispondeva: ‘Finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun pericolo. Solo con lui mi possono ammazzare’.

Mai parole furono più profetiche. Il 17 luglio, dal rientro di un periodo di ferie trascorse nella sua Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino. Diventando una delle prime agenti donne assegnate ad una scorta in Italia.

Il suo compito e quello degli altri quattro agenti era proteggere il Giudice ‘un morto che cammina’, come lui stesso ebbe a definirsi. Era ben consapevole il magistrato di come fosse divenuto l’obiettivo numero 1 di Cosa Nostra e di come non ci fosse scorta capace di evitare una nuova e più cruenta strage dopo quella di Capaci.

A non sapere era solo il quando sarebbe successo. Quel 19 luglio alle ore 16,58, quando si reca in via D’Amelio per salutare l’anziana madre, com’era solito fare. E’ allora che esplode una Fiat 126 parcheggiata poco distante.

Al suo interno circa 100 chili di tritolo. Troppi per quelle vite di cui rimane solo il ricordo. E la rabbia per non avere avuto né lo Stato né altre istituzioni preposte a preservarle. Perché quella di via D’Amelio fu la più annunciata delle stragi. ‘Solo con Borsellino mi possono ammazzare’. Così è stato per Emanuela.

Così è stato per gli altri quattro della scorta.

‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Oggi, nel giorno dell’anniversario, tante le commemorazioni  per ricordare quelle vite sacrificate. Ancora senza nome  i mandanti di quella strage.

La Giustizia e la Verità sono ancora lontane da venire.

A Sestu, diverse le iniziative per ricordare la loro concittadina vittima della mafia: un’opera scultorea ed un concerto dove verrà eseguito in prima assoluta un brano musicale composto da Ignazio Perra.

‘Il nostro obiettivo, sottolineano gli organizzatori, è quello di ricordare Emanuela Loi e le vittime innocenti di mafia che hanno tracciato un tragico periodo della storia d’Italia, nonché  le vicissitudini di quei cittadini che ancora oggi lottano quotidianamente in nome di valori fondamentali che sono alla base del nostro vivere civile e democratico’.

Chiara Farigu

giovedì 14 luglio 2022

Governo Draghi al capolinea? Il M5S non partecipa al voto di fiducia

 Tanto tuonò che piovve. Potrebbe essere riassunta così  la crisi politica che si è appena aperta al Senato con il non voto del Movimento cinque stelle (già annunciato ieri dal presidente Conte) al decreto legge Aiuti che comunque incassa la fiducia con 172 voti a favore. Draghi è salito al Colle e solo nelle prossime ore si conosceranno le decisioni che il Capo dello Stato intende mettere in atto.

Le ipotesi in campo sono tante e diverse. Le maratone televisive fanno a gara a chi sciorina quelle più verosimili e praticabili mentre i leader politici dei vari schieramenti lanciano strali contro i pentastellati accusati di irresponsabilità e addirittura di immoralità per aver aperto una crisi di governo con una pandemia non ancora debellata, una guerra in corso e una crisi economica che si taglia col coltello. Dimenticando le due crisi precedenti, avvenute in momenti altrettanto delicati, ma vissute, chissà perché e per come,  con maggior ‘leggerezza’. Anzi con orgoglio da chi le aveva provocate.

Fuori dal coro un’attenta analisi di Stefano Fassina, con un lungo post sul suo profilo Facebook:

"Non va drammatizzata la non partecipazione al voto del M5S al Senato per la conversione del DL Aiuti. Settimana scorsa, alla Camera dei deputati , il M5S ha dato la fiducia al governo e non ha partecipato al voto sulla conversione del Decreto perché non ha avuto risposte su temi decisivi per lavoratori, famiglie e imprese, dal termovalorizzatore al bonus 110%, sui quali non aveva votato il Decreto già in Consiglio dei Ministri. Al Senato, purtroppo, il voto è unico e coerentemente il M5S non sostiene il provvedimento.

Si sarebbe potuto evitare un passaggio così difficile se quanti oggi danno lezioni di senso di responsabilità verso la nazione si fossero ricordati di praticarlo in Consiglio dei Ministri due mesi fa, quando i ministri dell’allora gruppo parlamentare di maggioranza relativa chiesero di non inserire norme in radicale contraddizione con i principi fondativi del loro movimento e totalmente estranee ad un decreto di soccorso all’economia. O dal governo, il senso di responsabilità si fosse messo in atto di fronte alla richiesta di intervenire sul bonus del 110% per evitare il soffocamento di decine di migliaia di imprese.
L’isolamento del M5S e del Presidente Giuseppe Conte nel Palazzo non corrisponde alla realtà fuori. Chi oggi drammatizza punta a finire il M5S sulla strada dell'omologazione o sulla strada dell'irresponsabilità e rafforzare la prospettiva di una larga maggioranza centrista. Sarebbe un’aggravamento della drammatica sfiducia nella nostra democrazia.
Infine, ricordo alla mia metà del campo che, nonostante il ridimensionamento ed i problemi, il M5S porta nell'alleanza progressista la rappresentanza delle periferie sociali".
 
Come andrà a finire lo sapremo solo vivendo, recitava una noto refrain musicale.

Quel che è certo, chiacchiere a parte, è che abbiamo un bisogno impellente di un governo solido, compatto e di politici con P maiuscola. 

Praticamente una chimera...

Chiara Farigu

martedì 14 giugno 2022

Napoli. Galeotta fu quella ‘scarpetta’ a via Toledo

 A volta basta poco per far riaffiorare un ricordo. Una vecchia foto ritrovata in un cassetto, il ritornello di una canzone, un profumo particolare. E quando si rimette a fuoco quel momento, tassello dopo tassello, l’unico desiderio è riviverlo come fosse la prima volta.

Ed eccomi qui, nuovamente a Napoli,  come tre anni fa, in un momento particolarmente felice della mia vita, grazie a questo scatto salvato nella memoria dello smartphone.
C’eravamo trovati bene e ci siamo tornati in quel ristorante di via Toledo. Nessun indugio sul menù, sapevamo già cosa ordinare. Il panorama tutto intorno era semplicemente stupendo, per la vista, già pregna di bellezza, colori e scenari unici, solo l’imbarazzo della scelta.

Accanto a noi, loro, padre madre e figlio, sicuramente stranieri. Forse tedeschi, ci siamo detti. Una bella coppia, lui sembrava un attore o uno sportivo, visto il fisico atletico. Lei, bionda e longilinea, si guardava attorno e sorrideva. Era chiaro che seduta a quel tavolo ci stava da dio. Il ragazzino si divertiva ad arrotolare (maldestramente) gli spaghetti e più ancora a ‘rubare’ dai piatti dei genitori cozze e vongole per divorarle con voracità.

Il cameriere faceva avanti e indietro con portate di ogni tipo. ‘Lui è un salutista’, ho azzardato, ha ordinato verdure ripassate in padella, al gratin e insalate di ogni tipo. Senza disdegnare fritture arrosti e guazzetti di pesce. Poi, come il più godurioso degli italiani inzuppa il pane nel sughetto del piatto del figlio. E nel farlo incrocia il mio sguardo: ‘scarpetta’, gli dico, mimando il gesto. ‘Scarpetta, good!’, ripete, mentre si alza e mi offre del vino.

Il ghiaccio ormai è rotto e cominciamo a raccontarci, più a gesti che a parole, qualcosa delle nostre vite. Si unisce anche il cameriere che spesso fa da interprete. Sono austriaci e festeggiano a Napoli il loro anniversario di matrimonio, ben 17, dice lui, facendo intendere che sono davvero tanti. ‘Noi trenta in più, ben 47’, gli dico io, certa di suscitare stupore e meraviglia per tanta longevità. E così è stato, infatti. Gli chiedo se è uno sportivo visto che ne ha tutta l’aria e la prestanza. ‘Sono uno chef’ mi dice e allora capisco perché abbia voluto assaggiare di tutto e di più: ‘per rubare qualche ‘segreto’ e farlo suo, gli rispondo.

Una piacevole compagnia. Un valore aggiunto a quella cornice meravigliosamente unica che mi accingevo a lasciare per fare rientro a casa. Al momento dei saluti, baci e abbracci come vecchi amici. E un baciamano come forse mai più nella vita.

Chiara Farigu

domenica 12 giugno 2022

Donna Francesca Sanna Sulcis, la signora dei gelsi

 La strada dell’emancipazione femminile in Sardegna parte da lontano. E, se escludiamo Eleonora d’Arborea, (giudicessa del 14° secolo che promulgò la famosa Carta de Logu,) ci porta direttamente alla ‘Signora dei gelsi’, ovvero a Francesca Sanna Sulcis, alla quale ieri Google ha dedicato il suo ‘Doodle’ (immagine rivisitata del suo classico logo) in occasione del suo 306° anno dalla nascita.

Sconosciuta ai più, anche agli stessi isolani, Donna Francesca è stata imprenditrice, educatrice, stilista e vera pioniera del settore tessile,  passata alla storia per la lungimiranza con la quale è riuscita ad istituire una nuova via della seta tutta sarda.

Procediamo per gradi, a cominciare dai suoi natali avvenuti a Muravera, nella splendida Costa Rey del Sud Sardegna,  nel 1716. Figlia di benestanti proprietari agricoli e di allevamenti di bestiame, a 19 anni si unisce in matrimonio con il giureconsulto Pietro Sanna col quale si trasferisce a Cagliari.

Seguiranno anni di grandi cambiamenti per la giovane neo-sposa. E di proficue intuizioni che contribuiranno ad ampliare l’attività di famiglia, che si troverà a gestire in seguito alla morte del padre, grazie alla coltivazione dei gelsi e alla coltura dei bachi da seta. In men che non si dica riuscì a convertire i depositi familiari preesistenti in veri e propri laboratori della seta.

Laboratori che attrezzò con telai modernissimi atti alla lavorazione del filato pregiato, riuscendo così a creare vestiti alla moda dalla lavorazione raffinata e perfetta.

Le sue creazioni hanno vestito le nobildonne di mezza Europa, compresa la zarina Caterina II di Russia, che, in un ritratto esposto all’Ermitage, indossa un suo abito.

Francesca da vera imprenditrice amava occuparsi di tutta la filiera produttiva: dal bozzolo al filo al tessuto e alla formazione di centinaia di giovani donne che istruiva personalmente in appositi corsi di formazione, che dava poi  titolo ad un’occupazione retribuita nei suoi laboratori.

Una vera antesignana della moderna datrice di lavoro femminile. Un’occasione per le donne di quel periodo di affrancarsi da una stato di povertà terrificante e di dipendenza della figura paterna o maschile in senso lato.

La seta filata e prodotta nei suoi laboratori, di qualità superiore rispetto alle altre in uso, trovò presto modo di farsi conoscere fuori dall’isola e nel resto d’Europa.

Nel 18° secolo Francesca inaugurò ‘l’alta moda’, i suoi abiti erano richiestissimi da dame e principesse per la manifattura confortevole ed elegante, la qualità eccelsa del filato e i colori brillanti, vere novità per l’epoca.

A lei si deve anche la creazione di un copricapo femminile, ornato da un ricco broccato, chiamato ‘su cuguddu’, che ancora oggi rappresenta un elemento fondamentale in alcuni abiti tradizionali del Campidano.

Una donna sui generis sia professionalmente che nella vita privata. Continuò la sua attività di imprenditrice anche dopo la morte del marito, cosa davvero inusuale per quei tempi che usava relegare le vedove tra le pareti domestiche a vivere in intimità il proprio lutto.

Muore a 94 anni, due anni prima, non avendo più eredi in vita, lascia tutti i suoi beni ai poveri di Muravera e alla Chiesa con il compito di amministrarli sapientemente. Unita alla promessa che alla sua morte avrebbero provveduto ad assicurarle un funerale semplice, privo di ogni atto celebrativo, com’era stata la sua vita tutta dedita al lavoro senza ostentazioni di sorta alcuna. Sebbene coraggiosa ed anticonformista.

Chi subentrò alla sua attività però non ha la stessa caratura morale e la lungimiranza imprenditoriale di Donna Francesca: le piantagioni di gelsi vennero sostituite da alberi da frutto e della lavorazione della seta non si sentì più parlare.

Tutto ebbe inizio e fine con la vita di colei che immaginò ideò costruì ed esportò nel mondo un’arte manifatturiera sconosciuta per quei tempi: innovativa, creativa moderna.

La sua morte lasciò un grande vuoto nella comunità sarda. La su avita e la storia è emersa dall’oblio grazie  all’opera scritta dal giornalista Lucio Spiga. E’ grazie alla sua penna se oggi abbiamo modo di conoscere un’imprenditrice ante litteram che grazie alla sua intuizione è riuscita ad imporsi in campo internazionale, creando lavoro femminile ed esportando più che abiti vere opere d’arte dai filati unici.

Il suo paese natale per omaggiarne la memoria le ha dedicato il Museo dell’Imprenditoria Femminile

Chiara Farigu

giovedì 9 giugno 2022

Papa Francesco dice no al mito dell’eterna giovinezza: ‘le rughe sono testimonianza dell’esperienza’

 Il monito di Papa Francesco contro l’ossessione di uomini e donne disposti a sottoporsi ad interventi chirurgici di ogni sorta pur di scongiurare gli effetti dell’età che avanza, mi giunge mentre, davanti allo specchio, noto un nuovo segno sul mio viso.  Un evidente ‘portato dell’età’, come viene definito in campo medico. O una ‘ruga di espressione’, quando invece si vuole addolcire la pillola a chi quell’età tenta di esorcizzarla.

Comunque sia, dopo averlo osservato in lungo e largo, ho fatto scorrere il dito indice su quel segno per misurarne la lunghezza, tastarne la profondità e per studiare la possibilità, attraverso qualche escamotage di renderlo meno evidente agli occhi degli altri.

L’esplorazione, a onor del vero, è durata pochi secondi, il ‘ma chi se ne frega’ è arrivato giusto in tempo per spazzare via ogni velleità di ritocco artificioso a suon di cipria e pennello.

Uno in più o in meno che sarà mai, mi son detta, pensiamo alle cose serie. Eppoi tutto sommato, a ben vedere, trova la sua ragion d’essere con il resto della fisionomia di ‘vecchia’ signora, quale appunto mi accingo ad essere.

Accettarsi per quello che si è e non struggersi per quello che non si è e non si sarà mai è la filosofia di pensiero che mi accompagna più o meno da sempre e che, fin dal primo lockdown, mi ha portata a dire basta tingere i capelli lasciando che il grigio e il bianco avessero il sopravvento su un biondo che di naturale non aveva più niente e men che meno senso alla mia veneranda età. Un taglio sbarazzino e fresco ha fatto, e senza rimpianto alcuno, il resto.

Accettarsi, appunto. E volersi bene, come dice Papa Francesco. A ogni età e a maggior ragione quando non si ha più la freschezza e la tonicità di un tempo. ‘Le rughe, ribadisce Francesco, sono testimonianza dell’esperienza, della maturità. E la saggezza è come il vino buono, tanto più invecchi, più è buono. Coltivare il mito dell’eterna giovinezza come un’ossessione è profondamente sbagliato: una cosa è il benessere, altra è l’alimentazione del mito’.

Pensiero tranchant, questo di Bergoglio sulla spasmodica rincorsa all’elisir dell’eterna giovinezza, costi che quel costi. Purché mantenga quanto promette: visi levigati, labbra turgide,  corpi scolpiti.

Sconfiggere la vecchiaia è la parola d’ordine in questa ‘società dello scarto’, come la chiama Francesco, pronta a sbarazzarsi del ‘vecchio’, un tempo dispensatore di conoscenze e saggezza, percepito oggi come un peso, una zavorra di cui liberarsi al più presto.

Diventare vecchi è un privilegio. E come tale va vissuto, raccomanda il Papa mentre assesta un duro colpo al mito della giovinezza artificiale.

E mentre le sue parole riecheggiano nella mia mente, con le mani ripasso quelle rughe sparse qua e là sul mio viso e mi domando se mai un giorno riuscirò ad esserne anche fiera, al pari di Anna Magnani, che dopo aver faticato  tanto per averle non intendeva in alcun modo né attenuarle né tanto meno nasconderle.

Tempo al tempo, dico tra me e me.  Intanto le accetto. Poi si vedrà.

*Immagine Ansa

giovedì 2 giugno 2022

Rino Gaetano dopo 41 anni è più vivo che mai

 C’è da scommetterci. Se Rino fosse ancora tra noi sarebbe l’anticonformista di allora. Lo stesso dissacratore di miti e celebrità che si credono tali.  Lo stesso fustigatore di costumi che metteva magistralmente in musica vizi e virtù di un’Italia poco avvezza ai cambiamenti quanto incline a mantenere un certo status quo.

Chissà quante ne avrebbe cantato di questi ultimi due anni e passa di pandemia. Chissà come avrebbe sbertucciato l’idea che  il virus ci avrebbe reso migliori facendoci riscoprire i veri valori della vita se manco abbiamo aspettato che finisse per riprendere a scannarci l’uno con l’altro più e meglio di prima.

E della crisi che aumenta ogni giorno di più? Dei governi che si susseguono senza la benedizione del popolo? Dei cannoni che son tornati a sparare per far valere insane voglie di supremazie espansionistiche?

Un talento senza tempo, quello di Salvatore Antonio Gaetano, per tutti Rino. Unico. Indimenticabile.

Attualissimo ancora oggi, a distanza di 41 anni dalla sua morte, avvenuta nella notte del 2 giugno del 1981 a Roma in un drammatico incidente stradale. Uno scontro frontale tra la sua macchina che aveva invaso la corsia opposta ed un camion.  Una morte assurda, sopraggiunta anche in seguito ai ritardi coi quali arrivò, ormai privo di vita al Gemelli, dopo essere stato respinto, a causa della mancanza di un’adeguata struttura di traumatologia cranica, da diversi ospedali.

Aveva appena 30 anni. Tanta musica alle spalle e tantissima altra ancora da regalare. Mio fratello è figlio unico, Gianna, Aida, Berta filava, A mano a mano, Sfiorivano le viole, Il cielo è sempre più blu, solo per citare alcuni brani fra i più famosi, sono un cult della canzone italiana.

Un mito assoluto. La sua ‘Nuntereggaepiù’ sembra scritta oggi. Cos’è cambiato 40 anni dopo da questi versi?

La castità
la verginità
la sposa in bianco il maschio forte
i ministri puliti i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni

ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati
auto blu
sangue blu

cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU’

Certo, cambierebbero i Cazzaniga, i Gianni Brera, i Gianni Agnelli citati nel testo ma non mancherebbero vip e politici di nuova generazione a prenderne il posto.

E’ stato, come i miti che rispettano, un anticipatore. Anche se ha faticato e non poco a farsi riconoscere come tale. La sua ironia, la voglia di dissacrare tutto e tutto, sempre pronto allo sberleffo non fu subito compresa da un’Italia ancora troppo bigotta e legata a certe tradizioni. E di certo non ne  ha avuto neanche il tempo.

Gran parte dei riconoscimenti sono avvenuti post mortem, la ristampa dei suoi album è incessante, è amatissimo dalle nuove generazioni. A conferma che il talento, quando c’è, è eterno e quello di Rino non è in  discussione.

Per ricordarne la memoria, dopo due anni online a causa dell’emergenza sanitaria, torna il Rino Gaetano Day, la manifestazione organizzata da Anna e Alessandro Gaetano, al Sessantotto Village di Roma, un grande evento musicale, una due giorni dove i diversi ospiti si alterneranno sul palco per ricordare e salutare l’artista attraverso i suoi puoi grandi successi entrati nel cuore del pubblico di tre generazioni.

Chiara Farigu

*Immagine Corriere.it *Immagine di copertina tratta da Il Messaggero

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