il blog di chiarafarigu

martedì 19 luglio 2022

Trent’anni fa la strage di via D’Amelio. Sestu ricorda Emanuela Loi

 E’ il giorno del ricordo. Di uno dei fatti di cronaca più cruenti  della  storia della nostra Repubblica. Quella di via D’Amelio, una strage annunciata, a 57 giorni esatti dall’altra di Capaci  in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e i tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Il 19 luglio per me è tutti i giorni – sostiene Antonino Vullo, il sesto uomo della scorta del giudice e unico superstite – in via d’Amelio ci vado da solo anche durante l’anno. Ci vado perché ancora il ricordo di quel giorno rimbomba nella mia mente’. Si dice  stanco e amareggiato perché dopo trent’anni ancora non si è giunti ad una verità storica  poiché ‘c’è tanto ‘di occultato’ tra le istituzioni e le commemorazioni per stragi sono vissute più come un atto istituzionale dovuto che col cuore.

Lo stesso senso di amarezza si avverte nelle parole di Maria Claudia Loi, sorella di Emanuela, la poliziotta che in quell’attentato perse la vita.

‘E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei’.  Fu questa la prima reazione del Giudice Borsellino quando vide per la prima volta la giovanissima agente di polizia sarda in servizio come membro della sua scorta.

Era preoccupato per quelle cinque vite, il Giudice. Non tanto per la sua.

Sapeva di essere già condannato. Era solo una questione di tempo.

Nessuno dei due riuscì a proteggere l’altro.

Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, un’autobomba con circa 100 chili di tritolo esplode in via D’Amelio uccidendo lui, il Giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina,  Claudio Traina e la giovanissima Emanuela.  Una delle prime donne assegnate ad una scorta in Italia e la prima agente donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio.

Era il 19 luglio del 1992, esattamente 30 anni fa. Una ferita ancora aperta, tante le verità ancora sconosciute da portare a galla. Tanti i depistaggi e i silenzi di chi sa. La mafia, un cancro difficile da estirpare. ‘Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene’, era solito ribadire durante le interviste, ben consapevole che anche il silenzio, l’omertà, il girarsi dall’altra parte, uccide. Ancora più vigliaccamente.

Aveva appena 24 anni Emanuela. Sognava di diventare una maestra e di mettere su famiglia. Poi si fece tentare da un concorso per entrare in Polizia. Si preparò insieme a sua sorella ma solo lei superò tutte le prove col massimo dei voti. Aveva poco più di vent’anni quando dovette lasciare Sestu, cittadina a pochi chilometri da Cagliari dov’era nata e dove risiedeva con la famiglia, per trasferirsi a Trieste e accedere al corso di addestramento della durata di sei mesi.

Non pensava allora che quello sarebbe stato il primo (e l’ultimo)  distacco dai suoi cari e dal suo fidanzato.  Al termine del corso partì infatti per la nuova destinazione, Palermo.  Era anni difficili quelli, gli attentati mafiosi si susseguivano con una violenza inaudita, le forze dell’ordine e della magistratura erano le vittime sacrificali.

Alla famiglia Loi che viveva con crescente preoccupazione la lontananza e la divisa che Emanuela con orgoglio rappresentava, rispondeva: ‘Finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun pericolo. Solo con lui mi possono ammazzare’.

Mai parole furono più profetiche. Il 17 luglio, dal rientro di un periodo di ferie trascorse nella sua Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino. Diventando una delle prime agenti donne assegnate ad una scorta in Italia.

Il suo compito e quello degli altri quattro agenti era proteggere il Giudice ‘un morto che cammina’, come lui stesso ebbe a definirsi. Era ben consapevole il magistrato di come fosse divenuto l’obiettivo numero 1 di Cosa Nostra e di come non ci fosse scorta capace di evitare una nuova e più cruenta strage dopo quella di Capaci.

A non sapere era solo il quando sarebbe successo. Quel 19 luglio alle ore 16,58, quando si reca in via D’Amelio per salutare l’anziana madre, com’era solito fare. E’ allora che esplode una Fiat 126 parcheggiata poco distante.

Al suo interno circa 100 chili di tritolo. Troppi per quelle vite di cui rimane solo il ricordo. E la rabbia per non avere avuto né lo Stato né altre istituzioni preposte a preservarle. Perché quella di via D’Amelio fu la più annunciata delle stragi. ‘Solo con Borsellino mi possono ammazzare’. Così è stato per Emanuela.

Così è stato per gli altri quattro della scorta.

‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Oggi, nel giorno dell’anniversario, tante le commemorazioni  per ricordare quelle vite sacrificate. Ancora senza nome  i mandanti di quella strage.

La Giustizia e la Verità sono ancora lontane da venire.

A Sestu, diverse le iniziative per ricordare la loro concittadina vittima della mafia: un’opera scultorea ed un concerto dove verrà eseguito in prima assoluta un brano musicale composto da Ignazio Perra.

‘Il nostro obiettivo, sottolineano gli organizzatori, è quello di ricordare Emanuela Loi e le vittime innocenti di mafia che hanno tracciato un tragico periodo della storia d’Italia, nonché  le vicissitudini di quei cittadini che ancora oggi lottano quotidianamente in nome di valori fondamentali che sono alla base del nostro vivere civile e democratico’.

Chiara Farigu

giovedì 14 luglio 2022

Governo Draghi al capolinea? Il M5S non partecipa al voto di fiducia

 Tanto tuonò che piovve. Potrebbe essere riassunta così  la crisi politica che si è appena aperta al Senato con il non voto del Movimento cinque stelle (già annunciato ieri dal presidente Conte) al decreto legge Aiuti che comunque incassa la fiducia con 172 voti a favore. Draghi è salito al Colle e solo nelle prossime ore si conosceranno le decisioni che il Capo dello Stato intende mettere in atto.

Le ipotesi in campo sono tante e diverse. Le maratone televisive fanno a gara a chi sciorina quelle più verosimili e praticabili mentre i leader politici dei vari schieramenti lanciano strali contro i pentastellati accusati di irresponsabilità e addirittura di immoralità per aver aperto una crisi di governo con una pandemia non ancora debellata, una guerra in corso e una crisi economica che si taglia col coltello. Dimenticando le due crisi precedenti, avvenute in momenti altrettanto delicati, ma vissute, chissà perché e per come,  con maggior ‘leggerezza’. Anzi con orgoglio da chi le aveva provocate.

Fuori dal coro un’attenta analisi di Stefano Fassina, con un lungo post sul suo profilo Facebook:

"Non va drammatizzata la non partecipazione al voto del M5S al Senato per la conversione del DL Aiuti. Settimana scorsa, alla Camera dei deputati , il M5S ha dato la fiducia al governo e non ha partecipato al voto sulla conversione del Decreto perché non ha avuto risposte su temi decisivi per lavoratori, famiglie e imprese, dal termovalorizzatore al bonus 110%, sui quali non aveva votato il Decreto già in Consiglio dei Ministri. Al Senato, purtroppo, il voto è unico e coerentemente il M5S non sostiene il provvedimento.

Si sarebbe potuto evitare un passaggio così difficile se quanti oggi danno lezioni di senso di responsabilità verso la nazione si fossero ricordati di praticarlo in Consiglio dei Ministri due mesi fa, quando i ministri dell’allora gruppo parlamentare di maggioranza relativa chiesero di non inserire norme in radicale contraddizione con i principi fondativi del loro movimento e totalmente estranee ad un decreto di soccorso all’economia. O dal governo, il senso di responsabilità si fosse messo in atto di fronte alla richiesta di intervenire sul bonus del 110% per evitare il soffocamento di decine di migliaia di imprese.
L’isolamento del M5S e del Presidente Giuseppe Conte nel Palazzo non corrisponde alla realtà fuori. Chi oggi drammatizza punta a finire il M5S sulla strada dell'omologazione o sulla strada dell'irresponsabilità e rafforzare la prospettiva di una larga maggioranza centrista. Sarebbe un’aggravamento della drammatica sfiducia nella nostra democrazia.
Infine, ricordo alla mia metà del campo che, nonostante il ridimensionamento ed i problemi, il M5S porta nell'alleanza progressista la rappresentanza delle periferie sociali".
 
Come andrà a finire lo sapremo solo vivendo, recitava una noto refrain musicale.

Quel che è certo, chiacchiere a parte, è che abbiamo un bisogno impellente di un governo solido, compatto e di politici con P maiuscola. 

Praticamente una chimera...

Chiara Farigu

martedì 14 giugno 2022

Napoli. Galeotta fu quella ‘scarpetta’ a via Toledo

 A volta basta poco per far riaffiorare un ricordo. Una vecchia foto ritrovata in un cassetto, il ritornello di una canzone, un profumo particolare. E quando si rimette a fuoco quel momento, tassello dopo tassello, l’unico desiderio è riviverlo come fosse la prima volta.

Ed eccomi qui, nuovamente a Napoli,  come tre anni fa, in un momento particolarmente felice della mia vita, grazie a questo scatto salvato nella memoria dello smartphone.
C’eravamo trovati bene e ci siamo tornati in quel ristorante di via Toledo. Nessun indugio sul menù, sapevamo già cosa ordinare. Il panorama tutto intorno era semplicemente stupendo, per la vista, già pregna di bellezza, colori e scenari unici, solo l’imbarazzo della scelta.

Accanto a noi, loro, padre madre e figlio, sicuramente stranieri. Forse tedeschi, ci siamo detti. Una bella coppia, lui sembrava un attore o uno sportivo, visto il fisico atletico. Lei, bionda e longilinea, si guardava attorno e sorrideva. Era chiaro che seduta a quel tavolo ci stava da dio. Il ragazzino si divertiva ad arrotolare (maldestramente) gli spaghetti e più ancora a ‘rubare’ dai piatti dei genitori cozze e vongole per divorarle con voracità.

Il cameriere faceva avanti e indietro con portate di ogni tipo. ‘Lui è un salutista’, ho azzardato, ha ordinato verdure ripassate in padella, al gratin e insalate di ogni tipo. Senza disdegnare fritture arrosti e guazzetti di pesce. Poi, come il più godurioso degli italiani inzuppa il pane nel sughetto del piatto del figlio. E nel farlo incrocia il mio sguardo: ‘scarpetta’, gli dico, mimando il gesto. ‘Scarpetta, good!’, ripete, mentre si alza e mi offre del vino.

Il ghiaccio ormai è rotto e cominciamo a raccontarci, più a gesti che a parole, qualcosa delle nostre vite. Si unisce anche il cameriere che spesso fa da interprete. Sono austriaci e festeggiano a Napoli il loro anniversario di matrimonio, ben 17, dice lui, facendo intendere che sono davvero tanti. ‘Noi trenta in più, ben 47’, gli dico io, certa di suscitare stupore e meraviglia per tanta longevità. E così è stato, infatti. Gli chiedo se è uno sportivo visto che ne ha tutta l’aria e la prestanza. ‘Sono uno chef’ mi dice e allora capisco perché abbia voluto assaggiare di tutto e di più: ‘per rubare qualche ‘segreto’ e farlo suo, gli rispondo.

Una piacevole compagnia. Un valore aggiunto a quella cornice meravigliosamente unica che mi accingevo a lasciare per fare rientro a casa. Al momento dei saluti, baci e abbracci come vecchi amici. E un baciamano come forse mai più nella vita.

Chiara Farigu

domenica 12 giugno 2022

Donna Francesca Sanna Sulcis, la signora dei gelsi

 La strada dell’emancipazione femminile in Sardegna parte da lontano. E, se escludiamo Eleonora d’Arborea, (giudicessa del 14° secolo che promulgò la famosa Carta de Logu,) ci porta direttamente alla ‘Signora dei gelsi’, ovvero a Francesca Sanna Sulcis, alla quale ieri Google ha dedicato il suo ‘Doodle’ (immagine rivisitata del suo classico logo) in occasione del suo 306° anno dalla nascita.

Sconosciuta ai più, anche agli stessi isolani, Donna Francesca è stata imprenditrice, educatrice, stilista e vera pioniera del settore tessile,  passata alla storia per la lungimiranza con la quale è riuscita ad istituire una nuova via della seta tutta sarda.

Procediamo per gradi, a cominciare dai suoi natali avvenuti a Muravera, nella splendida Costa Rey del Sud Sardegna,  nel 1716. Figlia di benestanti proprietari agricoli e di allevamenti di bestiame, a 19 anni si unisce in matrimonio con il giureconsulto Pietro Sanna col quale si trasferisce a Cagliari.

Seguiranno anni di grandi cambiamenti per la giovane neo-sposa. E di proficue intuizioni che contribuiranno ad ampliare l’attività di famiglia, che si troverà a gestire in seguito alla morte del padre, grazie alla coltivazione dei gelsi e alla coltura dei bachi da seta. In men che non si dica riuscì a convertire i depositi familiari preesistenti in veri e propri laboratori della seta.

Laboratori che attrezzò con telai modernissimi atti alla lavorazione del filato pregiato, riuscendo così a creare vestiti alla moda dalla lavorazione raffinata e perfetta.

Le sue creazioni hanno vestito le nobildonne di mezza Europa, compresa la zarina Caterina II di Russia, che, in un ritratto esposto all’Ermitage, indossa un suo abito.

Francesca da vera imprenditrice amava occuparsi di tutta la filiera produttiva: dal bozzolo al filo al tessuto e alla formazione di centinaia di giovani donne che istruiva personalmente in appositi corsi di formazione, che dava poi  titolo ad un’occupazione retribuita nei suoi laboratori.

Una vera antesignana della moderna datrice di lavoro femminile. Un’occasione per le donne di quel periodo di affrancarsi da una stato di povertà terrificante e di dipendenza della figura paterna o maschile in senso lato.

La seta filata e prodotta nei suoi laboratori, di qualità superiore rispetto alle altre in uso, trovò presto modo di farsi conoscere fuori dall’isola e nel resto d’Europa.

Nel 18° secolo Francesca inaugurò ‘l’alta moda’, i suoi abiti erano richiestissimi da dame e principesse per la manifattura confortevole ed elegante, la qualità eccelsa del filato e i colori brillanti, vere novità per l’epoca.

A lei si deve anche la creazione di un copricapo femminile, ornato da un ricco broccato, chiamato ‘su cuguddu’, che ancora oggi rappresenta un elemento fondamentale in alcuni abiti tradizionali del Campidano.

Una donna sui generis sia professionalmente che nella vita privata. Continuò la sua attività di imprenditrice anche dopo la morte del marito, cosa davvero inusuale per quei tempi che usava relegare le vedove tra le pareti domestiche a vivere in intimità il proprio lutto.

Muore a 94 anni, due anni prima, non avendo più eredi in vita, lascia tutti i suoi beni ai poveri di Muravera e alla Chiesa con il compito di amministrarli sapientemente. Unita alla promessa che alla sua morte avrebbero provveduto ad assicurarle un funerale semplice, privo di ogni atto celebrativo, com’era stata la sua vita tutta dedita al lavoro senza ostentazioni di sorta alcuna. Sebbene coraggiosa ed anticonformista.

Chi subentrò alla sua attività però non ha la stessa caratura morale e la lungimiranza imprenditoriale di Donna Francesca: le piantagioni di gelsi vennero sostituite da alberi da frutto e della lavorazione della seta non si sentì più parlare.

Tutto ebbe inizio e fine con la vita di colei che immaginò ideò costruì ed esportò nel mondo un’arte manifatturiera sconosciuta per quei tempi: innovativa, creativa moderna.

La sua morte lasciò un grande vuoto nella comunità sarda. La su avita e la storia è emersa dall’oblio grazie  all’opera scritta dal giornalista Lucio Spiga. E’ grazie alla sua penna se oggi abbiamo modo di conoscere un’imprenditrice ante litteram che grazie alla sua intuizione è riuscita ad imporsi in campo internazionale, creando lavoro femminile ed esportando più che abiti vere opere d’arte dai filati unici.

Il suo paese natale per omaggiarne la memoria le ha dedicato il Museo dell’Imprenditoria Femminile

Chiara Farigu

giovedì 9 giugno 2022

Papa Francesco dice no al mito dell’eterna giovinezza: ‘le rughe sono testimonianza dell’esperienza’

 Il monito di Papa Francesco contro l’ossessione di uomini e donne disposti a sottoporsi ad interventi chirurgici di ogni sorta pur di scongiurare gli effetti dell’età che avanza, mi giunge mentre, davanti allo specchio, noto un nuovo segno sul mio viso.  Un evidente ‘portato dell’età’, come viene definito in campo medico. O una ‘ruga di espressione’, quando invece si vuole addolcire la pillola a chi quell’età tenta di esorcizzarla.

Comunque sia, dopo averlo osservato in lungo e largo, ho fatto scorrere il dito indice su quel segno per misurarne la lunghezza, tastarne la profondità e per studiare la possibilità, attraverso qualche escamotage di renderlo meno evidente agli occhi degli altri.

L’esplorazione, a onor del vero, è durata pochi secondi, il ‘ma chi se ne frega’ è arrivato giusto in tempo per spazzare via ogni velleità di ritocco artificioso a suon di cipria e pennello.

Uno in più o in meno che sarà mai, mi son detta, pensiamo alle cose serie. Eppoi tutto sommato, a ben vedere, trova la sua ragion d’essere con il resto della fisionomia di ‘vecchia’ signora, quale appunto mi accingo ad essere.

Accettarsi per quello che si è e non struggersi per quello che non si è e non si sarà mai è la filosofia di pensiero che mi accompagna più o meno da sempre e che, fin dal primo lockdown, mi ha portata a dire basta tingere i capelli lasciando che il grigio e il bianco avessero il sopravvento su un biondo che di naturale non aveva più niente e men che meno senso alla mia veneranda età. Un taglio sbarazzino e fresco ha fatto, e senza rimpianto alcuno, il resto.

Accettarsi, appunto. E volersi bene, come dice Papa Francesco. A ogni età e a maggior ragione quando non si ha più la freschezza e la tonicità di un tempo. ‘Le rughe, ribadisce Francesco, sono testimonianza dell’esperienza, della maturità. E la saggezza è come il vino buono, tanto più invecchi, più è buono. Coltivare il mito dell’eterna giovinezza come un’ossessione è profondamente sbagliato: una cosa è il benessere, altra è l’alimentazione del mito’.

Pensiero tranchant, questo di Bergoglio sulla spasmodica rincorsa all’elisir dell’eterna giovinezza, costi che quel costi. Purché mantenga quanto promette: visi levigati, labbra turgide,  corpi scolpiti.

Sconfiggere la vecchiaia è la parola d’ordine in questa ‘società dello scarto’, come la chiama Francesco, pronta a sbarazzarsi del ‘vecchio’, un tempo dispensatore di conoscenze e saggezza, percepito oggi come un peso, una zavorra di cui liberarsi al più presto.

Diventare vecchi è un privilegio. E come tale va vissuto, raccomanda il Papa mentre assesta un duro colpo al mito della giovinezza artificiale.

E mentre le sue parole riecheggiano nella mia mente, con le mani ripasso quelle rughe sparse qua e là sul mio viso e mi domando se mai un giorno riuscirò ad esserne anche fiera, al pari di Anna Magnani, che dopo aver faticato  tanto per averle non intendeva in alcun modo né attenuarle né tanto meno nasconderle.

Tempo al tempo, dico tra me e me.  Intanto le accetto. Poi si vedrà.

*Immagine Ansa

giovedì 2 giugno 2022

Rino Gaetano dopo 41 anni è più vivo che mai

 C’è da scommetterci. Se Rino fosse ancora tra noi sarebbe l’anticonformista di allora. Lo stesso dissacratore di miti e celebrità che si credono tali.  Lo stesso fustigatore di costumi che metteva magistralmente in musica vizi e virtù di un’Italia poco avvezza ai cambiamenti quanto incline a mantenere un certo status quo.

Chissà quante ne avrebbe cantato di questi ultimi due anni e passa di pandemia. Chissà come avrebbe sbertucciato l’idea che  il virus ci avrebbe reso migliori facendoci riscoprire i veri valori della vita se manco abbiamo aspettato che finisse per riprendere a scannarci l’uno con l’altro più e meglio di prima.

E della crisi che aumenta ogni giorno di più? Dei governi che si susseguono senza la benedizione del popolo? Dei cannoni che son tornati a sparare per far valere insane voglie di supremazie espansionistiche?

Un talento senza tempo, quello di Salvatore Antonio Gaetano, per tutti Rino. Unico. Indimenticabile.

Attualissimo ancora oggi, a distanza di 41 anni dalla sua morte, avvenuta nella notte del 2 giugno del 1981 a Roma in un drammatico incidente stradale. Uno scontro frontale tra la sua macchina che aveva invaso la corsia opposta ed un camion.  Una morte assurda, sopraggiunta anche in seguito ai ritardi coi quali arrivò, ormai privo di vita al Gemelli, dopo essere stato respinto, a causa della mancanza di un’adeguata struttura di traumatologia cranica, da diversi ospedali.

Aveva appena 30 anni. Tanta musica alle spalle e tantissima altra ancora da regalare. Mio fratello è figlio unico, Gianna, Aida, Berta filava, A mano a mano, Sfiorivano le viole, Il cielo è sempre più blu, solo per citare alcuni brani fra i più famosi, sono un cult della canzone italiana.

Un mito assoluto. La sua ‘Nuntereggaepiù’ sembra scritta oggi. Cos’è cambiato 40 anni dopo da questi versi?

La castità
la verginità
la sposa in bianco il maschio forte
i ministri puliti i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni

ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati
auto blu
sangue blu

cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU’

Certo, cambierebbero i Cazzaniga, i Gianni Brera, i Gianni Agnelli citati nel testo ma non mancherebbero vip e politici di nuova generazione a prenderne il posto.

E’ stato, come i miti che rispettano, un anticipatore. Anche se ha faticato e non poco a farsi riconoscere come tale. La sua ironia, la voglia di dissacrare tutto e tutto, sempre pronto allo sberleffo non fu subito compresa da un’Italia ancora troppo bigotta e legata a certe tradizioni. E di certo non ne  ha avuto neanche il tempo.

Gran parte dei riconoscimenti sono avvenuti post mortem, la ristampa dei suoi album è incessante, è amatissimo dalle nuove generazioni. A conferma che il talento, quando c’è, è eterno e quello di Rino non è in  discussione.

Per ricordarne la memoria, dopo due anni online a causa dell’emergenza sanitaria, torna il Rino Gaetano Day, la manifestazione organizzata da Anna e Alessandro Gaetano, al Sessantotto Village di Roma, un grande evento musicale, una due giorni dove i diversi ospiti si alterneranno sul palco per ricordare e salutare l’artista attraverso i suoi puoi grandi successi entrati nel cuore del pubblico di tre generazioni.

Chiara Farigu

*Immagine Corriere.it *Immagine di copertina tratta da Il Messaggero

venerdì 15 aprile 2022

Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana

 Il 14 aprile del 1980 moriva Gianni Rodari. Un grande della cultura italiana. Un maestro di narrativa che ha incantato e continua ad affascinare diverse generazioni di giovani e bambini.

Ricordo lo stupore dei miei piccoli alunni dinanzi alle favole e alle filastrocche nate dalla penna del Maestro. E che dire di ‘Giovannino Perdigiorno’, il distratto viaggiatore che perde tutto, l’autobus,  l’ombrello,  la via e persino la testa  ma non l’allegria, o di ‘Alice Cascherina’, che cade sempre dappertutto. Personaggi indimenticabili per bambini di ogni tempo.

Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo“, soleva dire. Un testamento per i tutti i giovani di oggi e ancor più di domani.

Rodari ha ricoperto molti ruoli: poeta, scrittore, saggista, giornalista, maestro. Anche maestro “clandestino”: nel 1937 insegnò italiano ad alcuni bambini ebrei, tedeschi, che si erano rifugiati in Italia sperando di salvarsi dalle persecuzioni razziali. Antifascista e partigiano.

Con le sue opere, tradotte in tutto il mondo, ha contribuito a rinnovare profondamente la letteratura per l’infanzia. Filastrocche in cielo e in terra, Il libro degli errori, Favole al telefono, Il gioco dei quattro cantoni, C’era due volte il barone Lamberto, La Grammatica della Fantasia, sono solo alcuni titolo tra i più conosciuti.

Diversi i testi contengono un messaggio pacifista.

E mai come oggi abbiamo bisogno di costruire ponti per unire popoli così distanti ma così vicini. Culture così diverse ma così speciali nelle loro specificità.

Questa  poesia sembra scritta oggi, tanto è attuale:

Ci sono cose da fare ogni giorno:

lavarsi, studiare, giocare,

preparare la tavola

a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:

chiudere gli occhi, dormire,

avere sogni da sognare,

orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,

né di giorno, né di notte,

né per mare, né per terra:

per esempio, la guerra.

Chiara Farigu

“Àrbores”, in un docu-film la Sardegna degli alberi che non ci sono più

 Conoscere la Storia di un’isola come la Sardegna non è semplice. Anzi è un’impresa piuttosto ardua, lo sanno bene gli stessi isolani che la abitano.

Figuriamoci per chi ‘viene da fuori’.

Si conoscono (e si apprezzano) le località turistiche più in voga, molto meno le altre spiagge altrettanto belle, forse anche più, ma meno battute; si conoscono i siti nuragici millenari e le bontà culinarie che la rendono unica. Il profumo del mirto, dell’elicriso e del corbezzolo non hanno segreti neanche per il turista fai da te e lo sferzare del maestrale che spettina cuori e pensieri è materia viva per poeti e scrittori di ogni tempo.

Una Terra unica. Con il suo susseguirsi di splendide baie lungo la costa e di varchi inaccessibili nell’entroterra.  Una Terra dai due volti. Dolce e aspra. Mite e dura. Riservata e accogliente. Rigogliosa e brulla allo stesso tempo.

Divenuta tale anche per via delle tante ferite che nel corso dei secoli le sono state inferte. C’è stato un tempo nel quale quest’Isola era coperta di boschi, ricca di fonti e materie prime, protetta dal vento. Poi, con l’arrivo dei  piemontesi l’isola cambia volto, colori e clima. I piemontesi iniziarono un’opera di  disboscamento senza eguali nell’intera isola che venne trattata al pari di una qualsiasi colonia anche se fu proprio lei a dare il nome a quel Regno da cui ebbe inizio il processo che portò all’Unità d’Italia. In meno di un secolo i piemontesi portarono a compimento un’operazione di saccheggio che gli spagnoli non erano riusciti a realizzare in secoli di dominio.

Quella legna e quel carbone sottratti alla Sardegna servirono a costruire lo sviluppo industriale del Nord mentre l’isola diveniva una terra spoglia, impoverita, desertificata.

A raccontare questa parte di storia, meglio noto come il tributo che i Sardi hanno pagato all’Unità d’Italia, il regista nuorese Francesco Bussolai, in un’emozionante docu-film,  “Àrbores”, fatto di immagini, documenti e testimonianze.

Galeotto fu il libro “Colpi di Scure e Sensi di Colpa” di Fiorenzo Caterini.  Una lettura illuminante per il regista sardo: ‘Mi ha fatto scoprire una storia che ignoravo e che le future generazioni dovrebbero conoscere. Un lavoro sulla memoria perduta’.

 ‘Àrbores’ racconta la storia del bosco del monte Ortobene di Nuoro. Un polmone verde che ha un vissuto comune ai boschi isolani, colpiti nell’800 dalla mano affilata del governo piemontese.

Diversi scrittori denunciarono il misfatto,  da Antonio Gramsci a Grazia Deledda, da Salvatore Cambosu a Giuseppe Dessì.

Un racconto che ognuno dovrebbe conoscere, per ricordare, riflettere, costruire consapevolezza e cambiamento. Una storia che non è solo locale, precisa il regista, ma che interessa tutti: oggi succede in Amazzonia.

E non è un caso che il docu-film, premiato al Babel Film Festival 2021, venga proiettato nelle scuole.  Gli effetti devastanti del disboscamento suscitano grande interesse tra i giovani, Greta Thunberg docet.

Chiara Farigu

martedì 5 aprile 2022

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022: 50 anni (portati bene). I prossimi li facciamo contare

 5 aprile 1972. Piovigginava quel mercoledi e questo non poteva essere che di buon auspicio per quel matrimonio che si sarebbe celebrato di lì a poco. C’era gran fervore in casa, sebbene tutto fosse stato pianificato fin nei minimi dettagli. ‘Ancora un attimo’ , pensò Agnese mentre annusava il bouquet di ciclamini di campo che aveva avvolto nel tulle. In quell’attimo i pensieri si divertirono a tornare indietro nel tempo,  quando tutto ebbe inizio.

Un anno e mezzo prima …

Sorrise Nico alle raccomandazioni di sua madre: ‘Stai attento ai banditi e… vedi di non innamorarti di una sarda: sono tutte piccole, bruttine e pure pelose (!). E scrivi a mammà appena arrivi‘.

Continuò a sorridere anche sulla nave che lo portava nell’isola, l’unica Regione in cui non era mai stato neanche per una breve vacanza. E che desiderava conoscere a fondo. Ci andava per insegnare, ma anche per mettere una distanza con un amore finito che però bruciava ancora. Un anno, solo un anno, poi avrebbe chiesto il trasferimento e sarebbe tornato nella sua Campania. Dalla sua famiglia e dai suoi amici.

Ci restò 9 nove anni e ci sarebbe rimasto a vita se … c’è sempre un se che scombina programmi e progetti di vita. Ma il cordone ombelicale con l’isola non è stato mai reciso. Impossibile farlo. In quell’anno, in quell’unico anno in cui avrebbe dovuto fare il docente e il turista, il destino, o chi per lui, si divertì a rimescolare le carte.

Fin dal suo arrivo. Con la scelta della sede: Oristano o Norbio? Optò per il 2°. Quanto lesse su ‘I Comuni d’Italia’ lo convinse che il paese, ai piedi di una splendida pineta dovesse essere delizioso. Non era preparato a quel vento frizzantino che scompigliava la sua chioma che già da un po’ gli dava qualche grattacapo. Trovò curiosi quegli alberi piegati, resi curvi dal costante soffiare del maestrale nell’isola. E quel modo di parlare così caratteristico, musicale, latineggiante, unico. Odori e colori nuovi, una natura selvaggia da esplorare, chilometri di mare incontaminato da vivere. In una parola, un continente. Diverso e tutto da scoprire.

Una mattina di ottobre suonò dai sig.ri Faba. Il bidello della scuola, al quale si era rivolto per cercare casa gli disse che, se fosse stata libera, avrebbe fatto bingo. E aveva ragione. La casa, situata nella parte alta del paese aveva due camere con bagno libere. Ed un’ampia terrazza con una vista panoramicissima. Ma i padroni di casa erano titubanti. Avevano già ospitato, tempo addietro, una famiglia di milanesi, non erano intenzionati ad accollarsi un nuovo inquilino. Nonostante un’altra entrata facesse comodo in quella casa a monoreddito.

Tornò a scuola sconfortato. Quel “Le faremo sapere” non lasciava presagire niente di buono.
Non dovette aspettare molto. La mattina seguente il signor Luigi si presentò a scuola “Va bene, la casa è sua, se vuole”.
La valigia era pronta, i libri pure. Al termine delle lezioni andò spedito a prendere possesso di quello spazio che sentiva già suo.

Fu in quell’istante che vide Agnese per la prima volta. Sorrise nel stringerle la mano mentre gli occhi, con  sguardo compiaciuto appurarono quanto fossero lontano dal vero le raccomandazioni di sua madre: 18 anni, capelli biondi, studentessa liceale, ” ‘nu babà“, pensò, altro che bruttine e pelose le sarde! Piccoletta sì, ma decisamente graziosa.

*Immagine freepik

Continuò a sorridere mentre dava una sistemata ai suoi bagagli. Un tepore insolito e sconosciuto avvolse i suoi pensieri. Ancora non lo sapeva ma il ricordo di quell’amore finito lo stava già abbandonando.

Quella notte anche Agnese sorrise e fantasticò a lungo sullo “straniero” che per un po’ avrebbe condiviso parte della casa dei suoi genitori.

Nessuno dei due sapeva che Cupido aveva sganciato uno dei suoi dardi micidiali.

Nessuno dei due poteva neanche lontanamente immaginare che in quella stretta di mano c’era già scritto tutto.

L’inizio di una vita a due che dura da ben 50 anni.

Forse fu il caso o forse fu il destino a scrivere il canovaccio di questo sodalizio  che va avanti da oltre mezzo secolo. Quel che è certo è che Nico e Agnese (i nomi, compresi Norbio e Faba, sono di ‘fantasia’, ma mica tanto a onor del vero) ci hanno messo, e pure tanto, del loro.  E continuano a farlo. Oggi più di ieri e meno di domani, come recita il poeta.

Quanto c’entri la pioggia in questa lunga storia d’amore non saprei, quel che è certo è che ‘siamo ancora qua – eh già’, e , si deus cheret ( = a Dio piacendo) contiamo di restarci ancora insieme e al lungo.

5 aprile 1972 – 5 aprile 2022. Con oggi son 50, portati bene, i prossimi, statene certi, li faranno contare.

Intanto, prosit!

Chiara Farigu


venerdì 25 marzo 2022

Da una foto ingiallita, uno scrigno di ricordi e di emozioni

 Era in fondo ad un cassetto, insieme ad alcuni documenti ormai scaduti. Ingiallita dal tempo quella foto mi ha catapultata indietro di alcuni decenni. Facendomi rivivere ricordi ed emozioni e provare tanta nostalgia per quel tempo che è stato e per le persone care vive solo in fondo al cuore.

Nell’immagine la mia famiglia, al centro lei, una suora di clausura. Con la sua storia, la sua vita che è stata (e continua ad essere) anche parte della mia.

Suor Dolores, al secolo Gesuina, sorella di mio nonno Federico e zia di mia madre, decide di entrare in convento molto giovane, 16 anni o giù di lì. Una vocazione a prova di bomba. Opta per l’ordine più duro, le Clarisse, nonostante le resistenze familiari, il monastero di Arezzo diventa la sua dimora definitiva. La sua nuova casa, la sua nuova famiglia, tutto il suo mondo era lì, tra quelle mura.

La conobbi nell’estate nel 1973. Ero in campeggio a Follonica (GR) e insieme a mio marito decidemmo di recarci ad Arezzo per conoscere questa zia, della cui esistenza sapevo solo grazie agli scambi epistolari. Il mio nome lo devo lei e alla devozione di mia madre per Santa Chiara.

Volevo farle conoscere la mia famiglia, mio marito e il piccolo Massimiliano che stava per compiere un anno. Non fu difficile trovare il monastero, gli aretini seppero darci le giuste indicazioni meglio di quanto faccia oggi il navigatore.

Bussammo e, fornite le generalità via citofono, fummo fatti entrare nella sala d’attesa. Il fresco ed il silenzio furono le prime sensazioni provate. Lo sguardo si posò poi su quelle sbarre di ferro che separavano le sorelle dal resto del mondo.

L’attesa durò poco. Arrivò una suora, era la zia, già avanti negli anni che avrebbe voluto abbracciarmi ma non poté farlo. Ci sfiorammo le mani, attraverso quelle grate. I suoi occhi si fecero lucidi per la gioia nel sentire che lei, monaca dall’età di 16 anni, era sempre presente nei pensieri dei familiari.

Dopo un po’ arrivarono, alla spicciolata, una decina di consorelle con sedia a seguito. Gli occhi tutti puntati su quel bambino che muoveva i primi passi e diceva, a modo suo, le prime parole. Un bambolotto da accarezzare, da annusare, da mangiare di baci.

Arrivò l’ora di cena. Un’esperienza indimenticabile. Dalla “ruota conventuale”, girevole, fece capolino tutto l’occorrente per apparecchiare la tavola. Con la seconda girata arrivò la cena al completo. Semplice, coi prodotti del loro orto, ma squisita. Trascorremmo la notte in convento, in una camera arredata in modo francescano, che sapeva di pulito. Il mondo era lontano. E distanti erano i problemi che lo affliggevano. Ma questi erano presenti nelle loro preghiere, fin dalle primissime ore della giornata. Una vita contemplativa la loro, e di preghiera.

Il mattino seguente, la colazione, ancora qualche chiacchiera e i saluti. Con la promessa che ci saremmo riviste.

Promessa mantenuta una decina di anni dopo.

L’occasione si presentò quando i miei genitori decisero di venire “in continente” per trascorrere un po’ di tempo qui ad Anzio dove vivo. La famiglia era cresciuta, ora i bambini erano due e noi adulti eravamo quattro. Ma l’ospitalità fu la stessa, anzi migliore della precedente.

Suor Dolores aveva raggiunto la veneranda età di 80 anni e la madre superiore fece uno strappo alla regola. Ci permise di “oltrepassare” le grate e di abbracciarci fisicamente. Ricordava ancora il sardo la zia e desiderava sentirlo parlare. Era avida di notizie, voleva sapere tutto dei parenti, chi era vivo e chi no, con chi si era sposato tizio e cosa facevano caio e sempronio. Una bambina curiosa e impaziente. Ma di una dolcezza e di una serenità che sprizzavano da ogni poro.

Oltrepassando quelle grate, il mondo, e non solo noi, era entrato per qualche ora in quel convento. La vita, i ricordi, le corse dei bambini, i racconti avevano preso il posto della contemplazione e del silenzio.

Conservo un ricordo piacevolissimo di quelle due visite.

Non riuscivo a capire, prima di allora, perché il mondo e la vita fossero al di là delle grate, fuori dal loro uscio.

Non era così. La vita di contemplazione non era fine a se stessa, era dedita alla sofferenza del mondo, alle discriminazioni, alla povertà e la vita quotidiana era scandita in parti uguali da “ora et labora”. Giardinaggio, cucito, rammendo, conserve di verdure e marmellate, biscotti, distillati di erbe e altro ancora erano in parte a disposizione loro, il resto, la gran parte, per la comunità. Per i tanti che ne avevano bisogno. Molte e diversificate erano le opere di carità svolte in silenzio.

Nelle loro giornate non c’era spazio per l’ozio e il dolce far niente.

Se n’è andata a 99 anni lasciando un gran vuoto in quel monastero del quale era la memoria storica e punto di riferimento. Oggi, nel ricordarla, l’ho sentita nuovamente accanto a me, come in quei giorni.

Chiara Farigu

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