il blog di chiarafarigu

mercoledì 4 agosto 2021

4 Agosto2014: quel pasticciaccio chiamato #quota96scuola. Per non dimenticare

 Torna puntuale, come ogni anno, il racconto di uno dei tanti tradimenti della politica italiana verso i suoi cittadini. Nella fattispecie verso 4000 insegnanti noti all’epoca come ‘Docenti Quota96’.

Tradimento, se non il più grave, di certo il più meschino. Perché voluto e scientemente reiterato.

Esattamente sette anni fa. Ero in Sardegna. Preparavo le valigie per far rientro a casa dopo un breve periodo di vacanza.  Ero felice perché stava per finire la mia ‘prigionia lavorativa’.

In #Senato si stava votando l’approvazione del decreto Madia relativo alla Pubblica Amministrazione al cui interno  era stato inserito l’emendamento “Quota96” atto a risolvere l’ingiusta vicenda venutasi a creatare con la riforma previdenziale Fornero che di fatto bloccava la messa in quiescenza di circa 4000 docenti aventi diritto.

Lo stesso provvedimento che cinque giorni prima  era stato  approvato alla #Camera, all’unanimità.

Era quel che si dice ‘cosa fatta’, ‘l’errore fornero’ dopo essere stato riconosciuto come tale, veniva finalmente emendato, sanato. Definitivamente corretto.

Non andò così.

Dopo ore di spasmodica attesa nel primo pomeriggio mi giunge un messaggio che non avrei mai voluto ricevere. In Senato, per mano e per voce della ministra Madia, il governo, con un emendamento soppressivo, stralciava dal decreto quanto era stato approvato qualche giorno prima alla Camera. Ripeto, all’unanimità.

*Immagine emendamento soppressivo firmato Madia

E’ stata, che io ricordi,  la prima e unica volta nella storia d’Italia che un’intera Camera approvasse all’unanimità un emendamento e si rimangiasse il voto dopo pochi giorni con il secondo passaggio dopo la modifica del Senato.

Una vergogna immensa per i quota96 e per il Parlamento.

Una retromarcia inaccettabile. Il governo che sconfessava se stesso. E sempre con la medesima e pretestuosa motivazione che fa fatto da refrain negli anni precedenti:  mancanza di copertura finanziaria.  Niente bollinatura del Mef.

La verità era però un’altra. E noi, quotisti gabbati dal governo, la conosciamo molto bene.

Ci fu allora un vero e proprio regolamento di conti tra l’allora  presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia (che approvò  le risorse necessarie  a copertura del provvedimento) ed il PdC, Renzi, che di fatto si sentì sfidato.

A farne le spese 4.000 disgraziati più le rispettive famiglie, che dopo aver vissuto per cinque giorni  in paradiso,  vennero nuovamente catapultati tra le fiamme dell’inferno.

C’è da dire, a onor del vero, che il carico da 90, oltre a Cottarelli,  lo mise pure Tito Boeri  con diversi articoli su La Repubblica, coi quali dipingeva gli insegnanti come una categoria di privilegiati, sottolineando a ogni piè sospinto che la riforma fornero non ‘s’ha da toccare’. Una crociata la sua che lo porterà dritto dritto a ricoprire la carica di presidente dell’Inps.

Quel 4 agosto il nostro diritto acquisito si  trasformò, tout court, e per volere di #MatteoRenzi in ‘aspettativa di un diritto. Le nostre speranze, di colpo, finite. Volatilizzate. Una pugnalata in mezzo al cuore sarebbe stata meno dolorosa.

Renzi, quella stessa sera  al Tg, cercò di minimizzare l’accaduto sostenendo che l’emendamento stralciato non aveva nulla a che fare con la P.A. e che non c’era da preoccuparsi perché il governo avrebbe fatto un decreto ad hoc per la salvaguardia dei docenti Quota96 entro il mese agosto.
Dimenticò di aggiungere l’anno visto che quel decreto non vide mai la luce.
Nè spiegò in quel tg perché, fatto fuori il pensionamento degli insegnanti (loro sì dipendenti della P.A.)  nel decreto Madia fosse stata inserita ed approdata la norma relativa al pensionamento anticipato dei giornalisti. Passata senza colpo ferire nel silenzio e col favore di quanti avevano così duramente osteggiato l’emendamento salva-Q96.

Quel giorno ho pianto tutte le mie lacrime. Un pianto irrefrenabile, convulso, a singhiozzi. Il mio cellulare squillava all’impazzata.

Improvvisamente mi cercavano tutti. Giornalisti, tivù da me rincorsi a vuoto per due anni, chiedevano un commento a caldo su questo assurdo dietrofront del governo. Ricordo di aver risposto, ancora col groppo in gola, ad una giornalista dell’ Huffington Post e al caporedattore della trasmissione Agorà che mi voleva in studio per la diretta del giorno dopo. Ci andò la mia amica Marta, io avevo il traghetto da prendere.

Indimenticabile quella traversata.

Ho continuato a imprecare, a piangere, a dare pugni sulla parete della cabina fino allo sfinimento.

Mio marito era seriamente preoccupato per me e per la mia salute e malediceva gli autori di tanta sofferenza.

Son passati sette anni da allora. Il dolore si è attenuato, certo, ma non dimentico.

Non voglio dimenticare.

Ricordare questa vergogna del governo Renzi è diventato per me un dovere, un impegno al quale non voglio rinunciare.

Denuncio come e quando posso quel governo che non ha saputo né voluto onorare gli impegni presi. La scuola, e quindi gli insegnanti, ancora una volta venivano trattati come l’ultima ruota del carrozzone P.A. Sebbene la narrativa politica si affannasse a sostenere che fosse la priorità.

Quel che accadde quel 4 agosto fu solo un assaggio del successivo “trattamento ”  riservato dalla politica alla classe docente più vecchia e meno remunerata d’Europa.  Ancora una volta si capì perfettamente quale fosse la concezione per la  scuola ed il rispetto che nutriva per gli insegnanti.

Avvisaglie chiare e pericolose sin d’allora che poi si sono concretizzate con la  #buonascuola, buona sóla per noi che l’abbiamo e la dovremo subire.

Noi Q96 abbiamo combattuto con coraggio e con la forza che ci veniva dalla giustezza della battaglia. Non abbiamo niente da rimproverarci.

Abbiamo lottato con onore.

E stavamo vincendo. A ricacciarci indietro quella la pugnalata alle spalle, a tradimento.

Noi abbiamo conservato intatto l’onore, il #governo no.

No, non voglio dimenticare. E come me i miei 4000 compagni di lotta.

4 agosto 2021

#quota96scuola   #Senato #governo


lunedì 26 luglio 2021

Sardegna tra roghi e solidarietà. ‘Abbiamo perso tutto, ci rimboccheremo le maniche. Come abbiamo sempre fatto’

 Oltre 20mila ettari di territorio andati in fumo, 1500 le persone sfollate, 7 i canadair della Protezione Civile italiana +4 arrivati dalla Francia (attesi in giornata altri 2 dalla Grecia), impegnati nello spegnimento via cielo, 10 le squadre in azione via terra tra vigili del fuoco e volontari: questi i numeri che raccontano la tragedia che sta vivendo la #Sardegna avvolta da uno degli #incendi più devastanti e distruttivi della storia.

Incalcolabili invece i danni alla flora e alla fauna, solo tra qualche giorno si riuscirà ad avere una visione più chiara e si potrà azzardare una stima economica per iniziare la ripartenza.

La previsione, se tutto andrà bene, vale a dire se verranno stanziate risorse proporzionate ai danni subiti e messe in campo politiche di vera prevenzione (gli incendi in terra sarda non sono una calamità quanto una costante di ogni estate), per ricostruire  boschi, frutteti, aziende agricole, allevamenti,  terrificanti le immagini degli ovini arsi vivi,  è di  almeno 15 anni, azzardano gli esperti.

Numeri da capogiro. Un’intera provincia, l’oristanese completamente in fiamme. Col maestrale che spinge il fuoco nei territori adiacenti.

L’allarme continua anche nella giornata odierna.

La popolazione è sgomenta. Già fiaccata da una crisi senza precedenti che in Sardegna morde più che altrove al punto da essere collocata sempre in pole position per numero di disoccupati e borghi in via di spopolamento da ogni report statistico messo in campo, ora è veramente in ginocchio. ‘Abbiamo perso tutto -raccontano davanti ai microfoni- ci rimboccheremo le maniche, come abbiamo sempre fatto. Siamo abituati a combattere, lo faremo anche stavolta’.

Intanto è partita da subito la gara di #solidarietà che sta investendo tutta l’isola. Come tre anni fa durante la protesta del latte.  Quando i pastori stanchi di subire prezzi irrisori, insufficienti persino a coprire le spese, decisero di sversare il latte per le strade.

C’era tutta la Sardegna a manifestare solidarietà ad una categoria che è la forza trainante dell’economia dell’isola.

Oggi come allora e come tante altre volte si fa ricorso all’arcaico istituito de #SaParadura.  L’arte antica di colmare i vuoti, usanza cara ai pastori sardi (e poi per estensione all’intera popolazione) che prevede un sostegno “in natura” ai colleghi che per avversità naturali si trovano in difficoltà ed hanno necessità di rimettersi in sesto, o in pari per riprendere l’attività come prima.

Gli allevatori isolani in fatto di avversità sono dei veri maestri.

Alle prese coi nemici di sempre, attacchi da animali predatori, furto di bestiame, alluvioni e incendi, ma sempre pronti a venire incontro a chi queste avversità le subisce.

Un codice non scritto ma ampiamente praticato in virtù del fatto che le azioni contano più delle parole.

Gli appelli ieri porta a porta, oggi via #social sono stanno trovando risposte anche nel resto d’Italia che da subito ha espresso solidarietà alla Sardegna tutta.

E mentre la  politica è alle prese col da farsi proclamando lo stato di ‘calamità naturale’ , ‘si destinino risorse del PNRR alla riforestazione’, chiede Solinas, la popolazione si domanda perché ancora una volta nulla sia stato fatto in termini di prevenzione.

‘Smettiamola di dare la colpa alle temperature roventi di questi giorni che certo non aiutano o ai cambiamenti climatici. C’è sempre la mano dell’uomo dietro a ogni incendio… altro che calamità naturale. Qui di naturale non c’è niente’, denunciamo molti sui social.

Difficile non concordare. Quando poi leggi che poche ore fa un incendio  ha coinvolto lo splendido resort di Santa Margherita di Pula  in cui sono state girate le riprese di “Temptation Island” causando ingenti danni.

E la storia si ripete, ancora una volta.

#sardegna  #indendi  #solidarietà  #saparadura

Chiara Farigu

*Immagine Viagginews.it

domenica 25 luglio 2021

25 luglio: giornata mondiale dei nonni e degli anziani. Papa Francesco: ‘non dimentichiamoci di loro’

 Custodi di memoria, di tradizioni e valori. Dispensatori di saggezza, anello di congiunzione tra generazioni, ponte tra passato e presente per affrontare con maggior consapevolezza il futuro.

Sono loro, i nostri anziani. I nostri nonni.

Un tempo querce della società, oggi fragili fuscelli quando non un peso perché ‘non più indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. Pertanto sacrificabili. Come abbiamo tristemente constatato in un anno e passa di pandemia. Sono stati loro a pagare il prezzo più alto in termini di decessi, di non accesso alle cure mediche e troppo spesso di indifferenza.

Eppure senza di loro quella ‘società produttrice’ che scalpita a dispetto di tutto e tutti andrebbe a fondo. Sono il miglior e più affidabile welfare familiare per figli e nipoti, babysitter a tempo pieno, autori di sogni profetici di questi ultimi. Non a caso Vito Dell’Aquila medaglia d’oro a Tokio di taekwondo, ha dedicato la vittoria al nonno, scomparso un mese fa perché ‘era certo che avrei vinto. Mi manca tantissimo’.

I nonni. Così preziosi eppure ‘tante, troppe volte, sono dimenticati’, ha detto Papa Francesco durante l’omelia della messa de ‘LA GIORNATA MONDIALE DEI NONNI E DEGLI ANZIANI’, giornata fortemente voluta  dal Pontefice  che la Chiesa festeggia oggi  25 luglio e negli anni prossimi si celebrerà nella quarta settimana di luglio. E’ grave dimenticarli o abbandonarli quando hanno più bisogno di amore e cure, è un male per tutta la società, ha aggiunto Bergoglio ‘non sono degli avanzi di vita, degli scarti da buttare’.

Ripropongo oggi  quanto ho scritto tempo addietro, ricordando il mio nonno speciale 

 

Come tutti i bambini anche io ho avuto i miei nonni. Quello materno è stato davvero speciale. Almeno io l’ho vissuto come tale. A cominciare dal suo nome, Federico Barbarossa.

Lo ricordo perfettamente. Baffetti alla Hitler come si usava allora, basco sulla testa per coprire la calvizie anteriore, artigiano a tutto tondo. Calzolaio, nello specifico.

Ai suoi tempi il calzolaio non si limitava a risuolare, sostituire tacchi o ricucire qualche strappo.

Lui le faceva le scarpe, nel vero senso del termine. Da cima a fondo. Scarponi per il lavoro nei campi, scarpe per la casa, per uomo  donna e bambini, scarpe eleganti per cerimonia.

La ricordo molto bene la sua bottega, nel cortile della sua casa.

Sulle pareti suole di tutte le misure, tomaie, spago e fili per cucire. E quel banco, al centro, pieno zeppo di attrezzi. Lesine, aghi, punteruoli, martelli, trincetti, raspe, vernici, colle e il piede di ferro sul quale battere, provare, mettere in forma le scarpe da costruire ex novo, da allargare o da sistemare, ancora una volta.

La società del consumismo, dell’usa e getta, non aveva ancora fatto capolino, disfarsi di un paio di scarpe era fuori da ogni immaginazione, allora.

La sua bottega, un luogo di incontro. Per fare quattro chiacchiere, farsi leggere o scrivere la lettera di un figlio partito per fare il militare, chiedere informazioni di ogni tipo.

E chi non poteva pagare, pagava in natura. Coi prodotti dell’orto o animali da allevamento.

Lo ricordo intento a lavorare nella sua bottega.

Mi insegnava i nomi degli attrezzi in italiano e in sardo e rideva quando ne sbagliavo la pronuncia o non ricordavo a cosa servissero.

Si divertiva a inventare storie. Le sue scarpe erano appartenute a principesse regine e principi azzurri. Uno dei quali sarebbe venuto un giorno a chiedere in sposa la sua nipotina, me, che negli ultimi tempi chiamava ‘Mercedina’, il diminutivo di Mercedes, mia madre.

Ricordo la sua mano. Calda e forte quando stringeva la mia.
Sì. E’ stato davvero un nonno speciale.
Il mio pensiero ieri, oggi e ancora domani è per lui. Ovunque egli sia

#papafrancesco   #nonni

Chiara Farigu

giovedì 22 luglio 2021

Scuola: riaprire in sicurezza. Vaccinazione unica soluzione?

 È il mantra di questi ultimi mesi: #riapriretutto MA in #sicurezza. In quel MA c’è tutto, o meglio niente, se poi parliamo di scuola.

Perché a parte il rinnovo di qualche arredo scolastico, come i chiacchieratissimi banchi monoposto, nulla è stato fatto.

I docenti continuano ad essere i più vecchi e i meno remunerati d’Europa, chi era ‘precario’ continuerà ad esserlo, ogni speranza di assunzione/stabilizzazione si è sciolta come neve al sole.

Le classi ‘pollaio’ non saranno più tali tra 10/15 anni in virtù della denatalità, spiegano gli analisti del settore, quindi perché sprecare tempo e risorse per anticipare un fenomeno che sarà fisiologico?  La messa in sicurezza di migliaia di edifici fatiscenti, ormai è chiaro a tutti, è e rimane una chimera.

In quanto all’efficientamento dei trasporti pubblici, da dove tutto dovrebbe cominciare, è solo una questione semantica.

Cambiamo i governi, si alternano i ministri, ma, alla fine della fiera, la scuola rimane l’ultima ruota del carro della P.A.

 Una palla al piede. Sebbene nell’agenda politica di qualunque schieramento, di maggioranza o di opposizione, venga inserita come priorità.

Non fa eccezione neppure il cosiddetto #governodeimigliori.

Che da quando si è insediato, ormai da cinque mesi, predica bene ma razzola male. E quel che è peggio, sulla riapertura, ancora oggi, è nebbia fitta. Un giorno sì e l’altro pure, il politico di turno rilascia dichiarazioni seguendo l’onda del momento, o più precisamente, del consenso.

Ma guarda caso è sempre concorde quando c’è da puntare il dito davanti ai risultati negativi di qualche studio o statistica che la riguardi.

Gli studenti italiani riscontrano difficoltà nella comprensione di un testo o negli esercizi di matematica? E’ colpa degli insegnanti che non li preparano adeguatamente.  Ed è colpa della Dad se, ai dati già preoccupanti degli anni scorsi, c’è stato un ulteriore peggioramento.

Poco importa se la Didattica a Distanza è stata uno strumento emergenziale (ma di fondamentale importanza), messo in atto dai docenti che doveva consentire, per un breve lasso di tempo, di mantenere vivo quel legame umano oltre che formativo con gli studenti in balia di se stessi nel pieno della pandemia. E ancor meno importa che a farsi carico di un lavoro straordinario, senza limiti di orario e senza alcun ritorno economico, siano stati i docenti.

E a nulla vale che le discutibili e costosissime prove Invalsi siano standardizzate e pertanto lontane anni luce dalle didattiche ‘personalizzate’ che invece devono tener conto di modalità e tempi di apprendimento di ciascun alunno/studente.

Più semplice e sbrigativo è puntare il dito sui docenti o sulla didattica da remoto se le carenze formative si dilatano e la dispersione scolastica aumenta.  Piuttosto complicato, e soprattutto costoso, è intervenire sui tanti provvedimenti che da almeno tre decenni stanno smantellando la scuola pubblica.

Non farà eccezione neanche la #riaperturainsicurezza del prossimo anno scolastico, spina nel fianco in questo periodo periodo di politici e tecnici e con settembre alle porte.

Puntare sul provvedimento più semplice e sbrigativo e naturalmente meno costoso, ovvero la vaccinazione per tutti, docenti  studenti e personale Ata, sembra l’opzione più accreditata.

E, purtroppo, anche l’unica.

Con l’obbligo per i primi. Come vorrebbe il disegno di legge presentato ieri dalla senatrice di FI, Licia Ronzulli,  presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza,  che chiama in causa il Governo e invoca il coinvolgimento dei ministri, in particolare quello all’Istruzione Patrizio Bianchi, affinché venga approvato in un arco di tempo brevissimo.  Il docente che non si vaccina o non ha completato l’iter vaccinale, sarà sospeso dal servizio e non potrà essere impiegato in altre mansioni, come le biblioteche. Nè percepirà alcuna retribuzione, recita il ddl su citato. Previste deroghe solo in caso di patologie che sconsigliano la vaccinazione.

Le polemiche, manco a dirlo, impazzano tra chi è a favore e chi da sempre è contrario a qualsiasi forma di obbligatorietà.

Vaccinazione, dunque. Fortemente raccomandata, sarebbe questo l’orientamento del CtS, o resa obbligatoria, se il ddl a firma Ronzulli venisse convertito in legge, è la via maestra al vaglio del governo. La sola ed unica soluzione per una #riaperturainsicurezza.

Con buona pace di quel che sarebbe potuto essere, ovvero una straordinaria opportunità per un radicale rinnovamento della più importante agenzia di formazione.

Un’occasione persa. L’ennesima.

#scuola  #riaprireinsicurezza

Chiara Farigu

lunedì 19 luglio 2021

Ricordando Emanuela Loi: 29 anni fa la strage di Via D’Amelio

 E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei’.  Fu questa la prima reazione del Giudice Borsellino quando vide per la prima volta #EmanuelaLoi, la giovanissima agente di polizia in servizio come membro della sua scorta.

Era preoccupato per quelle cinque vite, il #Giudice. Non tanto per la sua.

Sapeva di essere già condannato. Era solo una questione di tempo.

Nessuno dei due riuscì a proteggere l’altro.

Cinquantasette giorni dopo la strage di #Capaci, un’autobomba con circa 100 chili di tritolo esplode in via D’Amelio uccidendo lui, il Giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina,  Claudio Traina e la giovanissima Emanuela.  Una delle prime donne assegnate ad una scorta in Italia e la prima agente donna della Polizia di Stato a perdere la vita in servizio.

Era il 19 luglio del 1992, esattamente 29 anni fa. Una ferita ancora aperta, tante le verità ancora sconosciute da portare a galla. Tanti i depistaggi e i silenzi di chi sa. La mafia, un cancro difficile da estirpare. ‘Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene’, era solito ribadire durante le interviste, ben consapevole che anche il silenzio, l’omertà, il girarsi dall’altra parte, uccide. Ancora più vigliaccamente.

Aveva appena 24 anni Emanuela. Sognava di diventare una maestra e di mettere su famiglia. Poi si fece tentare da un concorso per entrare in Polizia. Si preparò insieme a sua sorella ma solo lei superò tutte le prove col massimo dei voti. Aveva poco più di vent’anni quando dovette lasciare Sestu, cittadina a pochi chilometri da Cagliari dov’era nata e dove risiedeva con la famiglia, per trasferirsi a Trieste e accedere al corso di addestramento della durata di sei mesi.

Non pensava allora che quello sarebbe stato il primo (e l’ultimo)  distacco dai suoi cari e dal suo fidanzato.  Al termine del corso partì infatti per la nuova destinazione, Palermo.  Era anni difficili quelli, gli attentati mafiosi si susseguivano con una violenza inaudita, le forze dell’ordine e della magistratura erano le vittime sacrificali.

Alla famiglia Loi che viveva con crescente preoccupazione la lontananza e la divisa che Emanuela con orgoglio rappresentava, rispondeva: ‘Finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun pericolo. Solo con lui mi possono ammazzare’.

Mai parole furono così profetiche. Il 17 luglio, dal rientro di un periodo di ferie trascorse nella sua Sardegna, fu assegnata proprio a #PaoloBorsellino. Diventando una delle prime agenti donne assegnate ad una scorta in Italia.

Il suo compito e quello degli altri quattro agenti era proteggere il Giudice ‘un morto che cammina’, come lui stesso ebbe a definirsi. Era ben consapevole il magistrato di come fosse divenuto l’obiettivo numero 1 di Cosa Nostra e di come non ci fosse scorta capace di evitare una nuova e più cruenta strage dopo quella di Capaci.

A non sapere era solo il quando sarebbe successo. Quel 19 luglio alle ore 16,58, quando si reca in via D’Amelio per salutare l’anziana madre, com’era solito fare. E’ allora che esplode una Fiat 126 parcheggiata poco distante.

Al suo interno circa 100 chili di tritolo. Troppi per quelle vite di cui rimane solo il ricordo. E la rabbia per non avere avuto né lo Stato né altre istituzioni preposte a preservarle. Perché quella di via D’Amelio fu la più annunciata delle stragi. ‘Solo con Borsellino mi possono ammazzare’. Così è stato per Emanuela.

Così è stato per gli altri quattro della scorta.

‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Oggi, nel giorno dell’anniversario, tante le commemorazioni  per ricordare quelle vite sacrificate. Ancora senza nome  i mandanti di quella strage.

La Giustizia e la Verità sono ancora lontane da venire.

#strageviadamelio  #paoloborsellino    #emanuelaloi

Chiara Farigu

venerdì 16 luglio 2021

Alluvione Germania, Merkel: ‘E’ una catastrofe’

 E’ stata definita #alluvionedelsecolo quella che si è abbattuta sul Nord Europa nei giorni scorsi.

Sarebbero oltre 1300 i dispersi, numero difficile da quantificare a causa del blackout che rende difficoltoso contattare i residenti che sono rimasti completamente isolati dei quali non si hanno notizie. Moltissime le persone che sono scappate senza poter prendere il cellulare. Cresce intanto il numero delle vittime:  81 i morti in Germania, 12 in Belgio.

Devastazione un po’ ovunque, strade trasformate in fiumi dalle piogge torrenziali, case distrutte, alberi crollati, macchine trascinate via dall’acqua. E le previsioni meteo non promettono miglioranti in vista.

La più colpita è la Germania, ‘è una catastrofe -ha detto la #Cancelliera Merkel- temo che non vedremo tutta la reale dimensione prima di qualche giorno’.

‘L’Italia intera si stringe nel dolore all’amico popolo tedesco con sentimenti di partecipe cordoglio per questa catastrofe. Il nostro affettuoso pensiero e la nostra solidarietà vanno alle famiglie delle numerose vittime e dei dispersi’, scrive il presidente Mattarella nel suo messaggio di cordoglio al quale si sono aggiunti molti altri del mondo politico e non solo.

Notizia in aggiornamento

#Germania   #Merkel   #alluvione

Chiara Farigu

*Immagine ansa

Morto a 44 anni l’attore Libero De Rienzo: interpretò il giornalista Siani in ‘Fortapàsc’

 Sui social,  numerosi i messaggi di cordoglio per l’improvvisa scomparsa di #Libero De Rienzo, attore tra i più talentuosi dell’ultima generazione. ‘Perdiamo un  giovane talento, un protagonista del cinema italiano che già aveva visto riconosciuta la sua arte con la doppia vittoria del David di Donatello nel 2002 e nel 2006. Il mondo della cultura italiana si stringe con affetto e cordoglio alla sua famiglia, ai suoi piccoli figli, alla moglie e a tutte le persone che lo hanno amato, stimato e apprezzato’, scrive il ministro della Cultura, Dario #Franceschini.

L’attore, 44 anni, è stato trovato ieri privo di vita, nella sua casa romana, intorno alle 22, da un amico preoccupato perché non aveva sue notizie da qualche giorno. La causa del decesso sarebbe riconducibile ad un infarto, sul suo corpo non ci sarebbero segni di violenza. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine per accertare cause e modalità del decesso, disposta anche l’autopsia.

A renderlo popolare, nel 2002, il film ‘Santa Maradona’ che gli è valso un David di Donatello come migliore attore non protagonista  e nel 2006 ‘Fortapàsc’ di Marco Risi dove ha vestito i panni del giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra nel settembre dell’85. Un’interpretazione intensa, passionale che ha contribuito a farlo conoscere alle nuove generazioni ‘Ci ha messo l’anima in quel film, chissà ora che si diranno lassù Picchio e Giancarlo’, ha scritto il fratello del giornalista ucciso, ancora incredulo per l’improvvisa scomparsa del giovane attore napoletano.

Tra i suoi lavori più recenti ‘Smetto quando voglio’ e ‘A Tor Bella Monaca non piove mai’.

Lascia due figli piccoli e la moglie Marcella.

Nel pomeriggio la #Rai gli ha reso omaggio con ‘Smetto quando voglio’ dove interpretava Bartolomeo, il contabile della banda formata da ricercatori e accademici finiti per strada a causa della precarietà riservata ai ‘cervelli’.

#LiberoDeRienzo

#cinema

Chiara Farigu 

*Immagine web

lunedì 12 luglio 2021

Accadde oggi. Itri, 12 luglio 1911: la strage dei sardi che dissero no alla camorra

 Un fatto storico sconosciuto ai più, la strage dei sardi avvenuta a Itri il 12 luglio del 1911.

Nei libri di storia non ve n’è traccia e i fatti di cronaca risalenti ad un secolo fa vengono dimenticati se nessuno si cura di mantenerli vivi.

Ma se conosciuti ci aiutano a riflettere. E a sconfiggere quei pregiudizi, di cui siamo stati vittime e che ora riversiamo sugli altri, sugli “ultimi”, dimenticando che ultimi lo siamo stati anche noi sino a non molto tempo fa. E che forse, per i Paesi più evoluti e civili del nostro, continuiamo ad esserlo.

Conoscere il passato, fatto di miseria, di sacrifici, di pregiudizi, di paure verso l’altro contribuisce, o perlomeno dovrebbe contribuire, a renderci migliori. A non ripetere gli stessi errori. E’ questa la funzione della storia. Mantenere viva la memoria per evitare  che quanto di più tragico abbiamo subito possa ripetersi. E con maggiore atrocità.

Itri 1911. Allora in provincia di Caserta (oggi di Latina) era ed è nota come il paese di Frà Diavolo, al secolo Michele Pezza, il temibile brigante che si macchiò di numerosi omicidi, ma che ebbe la grazia, arruolandosi come colonnello nelle truppe di re Ferdinado IV per difendere la corona borbonica. Per quei meriti, successivamente ottenne il titolo di duca di Cassano.

A Itri, in un torrido luglio del 1911, arrivarono, perché ingaggiati regolarmente, un migliaio di giovani sardi per la costruzione del quinto tronco della ferrovia Roma-Napoli.

Giovani carichi di speranze, con alle spalle un passato di fame e di stenti. Giovani completamenti differenti dagli itrani, per cultura, lingua e orgoglio. Il loro arrivo fu preceduto da un ingombrante e fastidioso venticello che col passare dei giorni si fece più intenso e forte, un vero turbine. Il suo nome non rientra nella rosa dei venti, ma nel più vergognoso dei sentimenti che possiamo provare verso un nostro fratello: PRE-GIUDIZIO, cioè un giudizio “prematuro” o parziale perché basato sulla non conoscenza e naturalmente carico di tutta quella valenza negativa insita nel termine.

La gente del posto li guardava con sospetto mista a ostilità. Quei “sardagnoli” erano anomali, diversi, sicuramente cattivi. Forse banditi, anzi certamente banditi.

In quegli anni imperavano le teorie di Cesare Lombroso, il padre della criminologia, che aveva eretto l’anomalia fisica a segno distintivo del destino dell’uomo delinquente. E secondo la fisiognomica lombrosiana nelle vene dei Sardi, soprattutto delle “zone delinqueziali” scorreva un sangue irrimediabilmente infetto dal virus della violenza.

Teorie, fortunatamente sconfessate e rimosse dalla scienza moderna, ma sostenute con forza ai quei tempi senza che contro di loro si fossero levate voci di protesta da parte di intellettuali qualificati. Al punto che sorprese che perfino la grande scrittrice sarda, e premio Nobel per la letteratura, Grazia Deledda, avesse in qualche modo dato credito a certe ipotesi, accompagnando Lombroso attraverso le regioni della Barbagia e dell’Ogliastra, ben sapendo quali fossero gli obiettivi che le misurazioni di visi e di crani che lo studioso andava meticolosamente prendendo, si prefiggevano e quale fosse il teorema che intendeva dimostrare.

Sospetto, diffidenza, paura, ostilità. Erano questi i sentimenti degli itrani verso quei giovani sardi che cercavano un riscatto sociale attraverso un lavoro  per il quale erano stati regolarmente reclutati. Un vero clima d’odio alimentato dai politici locali, nei loro comizi,  tendente a far credere agli itrani che i sardi gli stessero rubando il lavoro e contribuissero all’incremento della criminalità.

Ma la cosa veramente insopportabile e che non mandavano giù era che quei giovani Sardi non si piegavano al pagamento del pizzo, imposto dalla camorra.

Bastò una scintilla a far scoppiare l’incendio quel 12 luglio del 1911. Una provocazione, un insulto fuori luogo “sardagnolo” (corrispondente all’odierno “scimmia africana”), da parte degli “italiani”, poi la rissa e il linciaggio. Decine di morti e di feriti. Altrettanti gli arrestati e gli espulsi. Colpevoli di non essersi piegati alla malavita organizzata.

Una brutta pagina.  Rimossa dai libri di storia. Come i nomi delle vittime, dimenticati troppo in fretta, che  simboleggiano la determinazione di un popolo che non si fa mettere i piedi in testa da niente e nessuno.

Una storia intrisa di #pregiudizio e di #razzismo. Non molto diversa da quanto accade ancora oggi in diverse città protagoniste di fatti spregevoli.

La #memoria storica va tramandata, tenuta viva, sempre. Solo ricordando le sofferenze patite in prima persona c’è la speranza che si possa evitare di commetterne a nostra volta.

Altrimenti dalla storia non s’impara niente.

E il ciclo continua, cambiano gli scenari ma non gli uomini. E neppure gli errori

#accaddeoggi  #sardegna #razzismo

Chiara Farigu

*Immagine web

venerdì 2 luglio 2021

Istat: è record di nuovi poveri. Mai così tanti dal 2005

 Mai tanta povertà come in questi ultimi anni. A certificarlo, periodicamente, gli istituti di statistica  Censis, Coldiretti e in ultimo, ma solo in ordine cronologico, il report dell’Istat del 16 giugno scorso con riferimento all’anno 2020.

Ad avvertire il peso, recita il Rapporto, sono poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%), ed è più consistente tra le famiglie numerose mentre l’incidenza di povertà diminuisce nelle famiglie con almeno un anziano.  In pole position il Mezzogiorno, da sempre maglia nera con le due isole maggiori, ma la crescita più ampia si registra nel Nord, dove la povertà sale al 7,6% dal 5,8% del 2019.

Dati allarmanti ma riscontrabili nella quotidianità.

Basta uscire di casa. La vedi dappertutto. Ulteriormente lievitata dopo un anno e passa di pandemia e di continui cambi di colore dovuto ai contagi che hanno imposto restrizioni e chiusure. Molte delle quali da temporanee sono diventate definitive.

Molti, troppi, i cartelli ‘Cedesi attività’ o ‘Vendesi’ affissi su saracinesche abbassate o su seconde case sulle quali gravano tasse e accise di ogni genere. Chi compra si conta sulle dita di una mano. Un mercato in crisi da troppi anni quello immobiliare.

Le coppie giovani scappano a gambe levate. Si traferiscono al Nord ma sempre più all’estero dove sperano di ritagliarsi un angolo di futuro.

Molti giovani di oggi saranno i poveri di domani. Li aspetta una vita da precari, di lavoretti a tempo, sottopagati, sfruttati all’inverosimile perché tanto se rifiuti ce n’è un altro in condizioni peggiori che accetta. Un’intera generazione è a rischio povertà. Quella che oggi vivacchia grazie al welfare familiare di genitori e nonni che provvede dove lo Stato latita.

Ma poi? Sarà sempre peggio, ci ricordano i dati impietosi della Caritas, che vedono mese dopo mese aumentare il numero di quanti si mettono in fila per aspettare un piatto caldo o un pacco di viveri da portare a casa. Perché ai ‘vecchi’ che vivevano già in equilibri precari, si aggiungono i nuovi poveri. Quelli che ha creato la pandemia. Lavoratori saltuari, autonomi, stagionali privi di ammortizzatori sociali o con insufficienti misure di sostegno.

Se alla povertà economica aggiungiamo quella educativa (preoccupano e non poco i casi di abbandono e ritardo scolastico così come la disaffezione allo studio, per molti studenti conseguenza della difficoltà a seguire da remoto le lezioni) e quella sanitaria (sono sempre più i pazienti, soprattutto anziani, costretti a rinunciare o a rinviare le cure non legate al Covid), il quadro che si delinea è a tinte fosche. A pagare pegno, i più deboli: donne, anziani e bambini. Oltre un milione, questi ultimi, vivono in povertà assoluta, sostiene Save The Children. Numero che negli ultimi 10 anni è più che triplicato.

E’ record di nuovi poveri, concordano gli analisti del settore. Conseguenza di una delle peggiori crisi economiche della storia, seconda solo alla grande depressione dei primi decenni del XX secolo.

Numeri spaventosi. Che chiamano in causa la politica affinché intervenga con provvedimenti immediati e concreti a supporto per contrastarla. Quelli attualmente vigenti (Rem) appaiono del tutto insufficienti, vista la situazione.

Occorre invertire la rotta. Prima che sia troppo tardi.
Perché la povertà non è solo mancanza di cibo o di vestiario o di cure.  E’ isolamento. Da tutto e da tutti. E’ paura del presente ma soprattutto del futuro.

Ed è proprio questo, il futuro, che politiche lungimiranti devono assicurare. Se non si vuol perdere la parte migliore della società.  La linfa vitale.

Chiara Farigu

*Immagine pixabay

giovedì 17 giugno 2021

Se li abbandoni, il bastardo sei tu

 Partire per le vacanze è un’aspirazione più che lecita. Soprattutto adesso che l’Italia riapre, dopo un anno e passa di pandemia (anche se non del tutto sconfitta) e la voglia di libertà è più forte che mai.

Ma partire liberandosi dei cuccioli a quattro zampe perché nei posti di villeggiatura dove si è scelto di andare non sono graditi, o comportano limitazioni, è da bastardi.

Inutile girarci intorno e cercare eufemismi per definire quanti abbandonano i loro amici a quattro zampe  lungo le strade o nelle campagne come fossero un sacchetto di rifiuti.

Non c’è un altro termine: bastardi.

Sono oltre 60mila i cani di ogni razza e taglia abbandonati qualche giorno prima, o durante il tragitto verso il luogo di villeggiatura, circa 80mila i gatti. Chiusi in sacchetti di plastica o legati al palo di qualche segnale stradale. Il più delle volte scaraventati dalla macchina in corsa affinché non ci sia il tempo di provar rimorso e quindi di tornare indietro.

Oppure lasciati fuori dai balconi incuranti delle temperature elevatissime dei mesi estivi, come purtroppo, troppe volte, ci hanno raccontato le cronache. Condannati a morte certa, visto che il senso d’abbandono uccide ancor più e peggio della mancanza di cibo e acqua.

L’ultimo episodio, qualche giorno fa a Mestre. Un uomo in bici viene ripreso mentre lancia nel fiume un cane dopo averlo liberato dal sacchetto di plastica. Le forze dell’ordine, prontamente allertate, non sono riuscite a salvare il cucciolo ma grazie alle immagini e al racconto dei testimoni hanno individuato il responsabile dell’ignobile atto.

Abbandonare un animale, così come tenerlo in condizioni incompatibili con la loro natura o arrecargli sofferenze è un REATO punito con multe che vanno dai 1.000 ai 10.000 euro e con l’arresto fino ad un anno (art. 727 del codice penale). Qualunque sia la motivazione. Compresa la crisi economica che negli ultimi anni ha imposto ulteriori ristrettezze e nuovi stili di vita. A pagare pegno, troppo spesso, proprio gli animali, visto che il loro sostentamento, comunque sia, richiede un costo.

Per molti cosiddetti ‘umani’, il deterrente pecuniario però non è abbastanza. Ci vorrebbe ben altro. Un cane abbandonato, è un cane spacciato. Quasi sempre.  Ce lo raccontano le cronache, anno dopo anno. Investiti dalle auto, maltrattati perché ormai randagi da soli o in branco, scacciati perché ritenuti pericolosi o  portatori di malattie.

Un cane abbandonato può inoltre morire di stenti  o di crepacuore,  perché lui un cuore ce l’ha, a differenza dei tanti, troppi umani che senza batter ciglio se ne disfano perché alle vacanze, costi quel che costi, non si rinuncia.

Se li abbandoni, il bastardo sei tu, recitava una campagna di sensibilizzazione di qualche anno fa. Slogan sempre attuale, oggi come ieri. Più di ieri.

Chiara Farigu

La nonna paterna? Una nonna a metà (con poche eccezioni)

  Essere nonne è un dono meraviglioso che la vita riserva a chi ha avuto la gioia di essere prima mamma. E’ come diventare madri una seconda...